Ora getto questa pietra contro l’albero che mi è di fronte:
se lo tocco è segno di salvezza, se lo sbaglio è segno di dannazione.
Mentre dicevo così getto la pietra con mano tremante
e con un orribile battito del cuore,
ma così felicemente che va a colpire il bel mezzo dell’albero.
Da allora non ho più dubitato della mia salvezza.
J.-J. Rousseau, Confessioni, 1782
Non basta un singolo atto, semplice e ripetuto, come quello di Rousseau, che per trovare una conferma tangibile della propria fede cerca di colpire un tronco finché non lo becca: la maschera di Yukio Mishima si confessa attraverso boschi sognati a occhi aperti dove il sangue sgorga a fiotti. Difficile trovare un sasso per colpire un tronco qualsiasi e pulirsi la coscienza: ogni sasso è imbrattato di rosso; difficile trovare conferma di una qualsiasi fede: a ogni tronco è legato un San Sebastiano infilzato dalle frecce.
L’immagine di giovanotti nudi e seviziati da lame di vario genere accompagna il protagonista fin dalla sua prima infanzia quando, alle prese con un libro illustrato, s’imbatte con delizia nelle vicende di principi trucidati, mentre prova un’acuta delusione nello scoprire che sotto le vesti di un cavaliere Giovanna d’Arco è effettivamente un’entità del sesso opposto: ‘Mi parve di stramazzare a terra per un pugno. La persona che nel mio pensiero era sempre stata lui diventava lei’; e lo accompagna nella crescita, quando scopre di avere tra le gambe un gingillo ‘indagatore’ capace di gonfiarsi ogni volta che gli occhi si soffermano su vignette non molto pacifiste, e quando insieme ai compagni di scuola si dedica assiduamente a una sorta di acchiappagingillo chiamato ‘il gioco della sporcizia’. Prima e seconda persona si rincorrono nella confessione del compimento mentale di erotici misfatti: ‘A quanti di quei giovani non hai strappato mentalmente i vestiti di dosso, nella giornata di ieri? La tua immaginazione somiglia al vascolo in cui l’erborista ripone gli esemplari delle piante: lì dentro raccogli i corpi nudi di tutti gli efebi che hai visto nel corso del giorno, e poi, la sera, a letto, scegli dalla tua raccolta l’olocausto rituale della tua cerimonia pagana, dando preferenza a quello che ha colpito particolarmente la tua fantasia’.
Le origini della maschera coincidono con l’emergere della necessità di coprire tutto questo agli occhi del mondo; ma la confessione non si fonda sullo sciorino fine a se stesso di visioni masturbatorie. La narrazione di eventi (passati, presenti, immaginati) è permeata da continue domande che il protagonista rivolge a se stesso, che l’autore rivolge a un pubblico (probabilmente) scandalizzato, non tanto con lo scopo di giustificarsi o di convincere, bensì al fine di mettere in dubbio ogni possibile soluzione del problema, denudandone ogni incognita servendo il dubbio nella sua crudezza, come una porzione di sashimi appena tagliato. E sashimi in giapponese significa letteralmente ‘corpo infilzato’. Come quello di San Sebastiano.
La risultante di tutti gli interrogativi non poco nevrotici tracciati nel piano è una densa lettera aperta sul significato dell’amore, scritta dalla mano di un orientale che dimostra di conoscere bene l’Occidente: ‘Nelle xilografie del periodo Genroku capita spesso di riscontrare una somiglianza sorprendente tra i lineamenti d’una coppia di amanti, con poco o nulla che consenta di distinguere l’uomo dalla donna. L’idea universale del bello nella scultura greca si avvicina parimenti a una stretta analogia fra il maschio e la femmina. Non potrebbe consistere in ciò uno dei segreti dell’amore? Non potrebbe darsi che lungo i riposti meandri dell’amore circolasse un anelito irrealizzabile, quanto dell’uomo quanto della donna, a diventare l’esatta immagine l’uno dell’altro? Non potrebbe darsi che questo anelito li spingesse sempre più avanti, sfociando alla fine in una tragica reazione, per effetto della quale si sforzassero entrambi di pervenire all’impossibile puntando verso l’estremo opposto?’.
Il protagonista fin da piccolo è di salute cagionevole. Si capisce che è pallido, scarno; che poche volte ha visto il Sole. Una figura insana solo a vederla. Uno scialbo topo da biblioteca. Un futuro impiegato dello Stato al cui interno accadono cose che è meglio nascondere. Qui subentra la maschera, un velo intessuto quotidianamente con perle di bigiotteria, così da apparire normali all’esterno, alla gente che cammina fuori. Ma l’ossessione della normalità è un oceano piatto sotto al quale veleggiano tsunami, e sembra impossibile scegliere tra la bellezza levigata del primo e quella incessantemente increspata dei secondi. La coscienza si dispiega oscillando a perdifiato tra amore e morte, piacere e dolore, natura e guerra. Il primo boccone dell’età adulta è quello di un suro, pesce di acqua di mare; il secondo è il pugno di un compagno di scuola, sferrato sulla guancia, pieno di neve; il terzo è una distesa di ciliegi in fiore. Tutto sullo sfondo di un Giappone bellicoso, che costruisce aeroplani Modello Zero destinati a piombare kamikaze su navi nemiche, e che si prepara tragicamente alla folle rappresaglia di Hiroshima e Nagasaki. All’odore di pesce, di neve e di fiore di ciliegio si mescola quello di ingranaggi, di pelle rancida, di lacrime versate. Il sacrificio di numerose vite attorno a sé non impedisce però il desiderio di annullare la propria. La bellezza non salva. Neanche se assume la forma di una vergine ubbidiente al minimo gesto: i cavalloni sono sempre in agguato, e Sodoma lustra gli attrezzi del suo gioco sotto la loro ombra. La maschera si sgretola.
Mishima ha scritto questo libro a ventiquattro anni, nel 1949, mentre la traduzione italiana, dall’americano, è disponibile solo dal 1969, a un anno dal seppoku in diretta tv (25 novembre 1970), suicidio rituale premeditato dall’autore secondo la tradizione autoinfilzante dei samurai (meglio conosciuto in Occidente come harakiri). Il libro, nonostante le inevitabili aporie linguistiche rispetto all’originale, è considerato un classico della letteratura giapponese moderna e mantiene una potente attualità anche per il lettore occidentale, non tanto per i suoi contenuti quanto per come essi vengono esposti, ossia per lo stile: quasi barocco in alcune descrizioni, ma senza fronzoli né parafrasi quando si tratta di andare a scandagliare i moti dell’animo.
Moravia definì Mishima un conservatore decadente, e aveva le sue ragioni: il decadentismo si può notare, ad esempio, nel modo in cui l’autore (in vita) fu ossessionato dalla morte; il conservatorismo nella sua aderenza al valore simbolico delle tradizioni giapponesi. Tuttavia, il giudizio di Moravia si rivela riduttivo: leggendo le Confessioni di una maschera anche il palato meno abituato e meno sensibile non può non percepire un certo sapore rivoluzionario.
L’Inesistente