Prese una manciata di neve da terra e guardò il vento portargliela via, guardò il vento strappargli dalle dita tutti quei granelli e il cielo oltre la mano: uccelli bianchi su sfondo bianco volarono sopra il suo corpo caduto. Aveva spostato il peso del busto sul gomito destro e si era tolto i guanti per migliorare la presa sulla montagna, almeno su una parte di essa, quella che riusciva a stringere disteso a tre metri dal cilindro arancione che delimitava qualcosa sulla pista da sci, e pensò che forse, scavando ancora, avrebbe trovato una piccola scatola in cui chiudersi a chiave e sparire per un po’.
Il ragazzo caduto aveva imparato a maneggiare le scatole lavorando nel refettorio della scuola elementare con cui adesso era in settimana bianca. Grazie alla sua inettitudine ai fornelli e, soprattutto, alle bucce di pomodoro nella pastasciutta dei bambini, il cui palato si rivelava assai raffinato quando si trattava di trovare delle scuse, era stato trasferito al magazzino, e per lui era stata una liberazione, perché lì nessuno lo disturbava e aveva tempo per spostare le cose da una scatola all’altra e stiparle nello spazio loro destinato nelle celle frigorifere, e quel gesto ripetuto meccanicamente, a testa bassa, per evitare lo sguardo di un passante che non sarebbe mai passato, lo faceva stare meglio, gli faceva dimenticare il fratellino morto nella culla, mentre lui sotto la doccia non si era accorto che la casa stava andando a fuoco, e la faccia dei suoi genitori adottivi e gli ergastoli che avrebbe dovuto scontare una volta maggiorenne e la grazia in cui non era sicuro di voler sperare.
Le scatole erano i contenitori di un futuro alternativo, un futuro fatto di cose prese, toccate, spostate, perché se prendeva in mano le cose e le toccava e le spostava da una scatola all’altra, queste cose diventavano parte di una storia che poteva controllare dall’inizio alla fine in tutti i suoi dettagli senza mai distrarsi, non com’era successo quel giorno terribile in cui si era improvvisato babysitter, e più le cose spostate in quella storia erano intime, più la storia era al sicuro, tanto che a volte si serviva del naso e delle labbra per assorbire più da vicino l’odore o la temperatura degli oggetti afferrati, così gli capitava di spostare il corpo della ragazza con cui aveva iniziato a uscire, non perché russasse o gli rubasse le coperte nel sonno, ma perché gli piaceva l’idea di spostare il peso di alcune sue parti, perché in questo modo sentiva di assemblarla in uno spazio ordinato che sarebbe stato in grado di ritrovare altrove, magari in una piccola scatola sepolta nelle profondità di una montagna.
Chiuse e riaprì il pugno per farci arrivare un po’ di sangue, quindi prese un’altra manciata di neve e la tese al cielo, offrendola in pasto a un nuovo stormo di uccelli bianchi che passava sulla sua testa, appena sotto la seggiovia vuota e cigolante – che fai? – le aveva detto la ragazza una notte in cui lui le aveva spostato il polso sul cuscino – vuoi entrare ancora dentro di me? – gli dispiaceva di averla svegliata, ma non troppo, solo quel polso lo separava da lei, lo sfiorò con la bocca rimanendo con gli occhi aperti, vedeva solo metà del suo sorriso, una bellissima metà, lei gli accarezzò la guancia con il dorso della mano libera e posò l’indice e il medio della mano spostata sul suo labbro inferiore – hai le labbra secche – con le dita entrò nella sua bocca, le inumidì sulla punta della lingua, quindi le fece scorrere piano sul labbro inferiore – sono felice che sia stato tu – lui sorrise, le baciò le dita insalivate e strinse sulla guancia la mano che lo accarezzava, non era certo che sarebbe stato in grado di ricordare quei piccoli movimenti e quegli sguardi, l’umidità e il calore di quell’occasione, i corpi incastrati, il lenzuolo rattrappito e macchiato di rosso, per questo avrebbe spostato di lei quante più parti fosse stato possibile, quella notte e tutte le notti che avrebbero preceduto il distacco, quando lei, venuta a conoscenza dei suoi guai, avrebbe cominciato a odiarlo per sempre – non parli molto – disse infilando una gamba fra le sue, lasciando che il tallone scorresse fino alla fine della tibia, lui nascose gli occhi appoggiando la fronte sul suo sterno, sentì il respiro di lei fra i capelli sudati, sentì che lei aveva bisogno di parole, e riuscì a dire – penso di essermi innamorato di te – gli uccelli bianchi emisero un verso fuori dal suo campo visivo, il vento aveva portato via tutta la neve dalle sue dita.
La seggiovia era coperta da larghe pennellate di nevischio, i suoi sci erano schizzati chissà dove, il vento era aumentato e c’era sempre meno luce, non era visibile traccia umana a parte il cilindro arancione verso cui decise di trascinare il corpo, puntellandosi su entrambi i gomiti e facendo leva sulla gamba ancora sana: l’altra si era gonfiata e pulsava come un cuore, quasi fosse sul punto di esplodere in un pulviscolo di carne e schegge di tibia. Aveva preso quella curva a tutta velocità apposta per sfracellarsi su quel cilindro arancione, e l’aveva mancato, ma era caduto lo stesso e la botta era stata forte, gli aveva fatto perdere i sensi, e quando si era risvegliato, aveva visto gli uccelli bianchi, aveva spostato una parte di montagna, l’aveva stretta nella mano, aveva trovato una piccola scatola e dentro la scatola c’era lei. Si allungò sulla gamba dolorante per slacciare lo scarpone da sci, abbandonò la schiena esausta sul cilindro arancione e aspettò i soccorsi fissando il bianco: si sarebbe precipitato dalla ragazza, le avrebbe confessato tutto, lei lo avrebbe aiutato a spostare le cose.
L’Inesistente
Credits: René Magritte, Les Graces Naturelles, 1948 [arthive.com]