Queer: dialogo con Burroughs in un bar dell’interzona.

[…]

Sur mes refuges détruits
Sur mes phares écroulés
Sur les murs de mon ennui
J’écris ton nom

Sur l’absence sans désir
Sur la solitude nue
Sur les marches de la mort
J’écris ton nom

[…]

Paul Éluard, Liberté, 1942

Raccontare un Dry Martini a regola d’arte non avrebbe senso, giusto Lee? Altrimenti perché descrivere la sbobba annacquata che ti ha portato il cameriere, la putrescenza dell’oliva che già si decompone dentro di te ancora prima di essere sorbita. Allora, qui seduto in un bar dell’interzona, sorbisciti il male in tutto il suo essere, anzi, brindiamo al male, e non fingere di aspettarti qualcosa di diverso, perché è proprio il diverso che ci interessa, il queer.

Fosse stato gustoso e dissetante il Dry Martini non sarebbe nemmeno esistito nel tuo racconto, poiché totalmente privo di fascino, mentre è proprio la sua versione putrescente che scegli di materializzare con la scrittura. L’artista compie una selezione tra le cose che si accumulano nella sua prospettiva, e spesso si tratta delle cose più belle, perché il bello ha uno scopo in sé, funziona subito nelle pagine di un romanzo o sulla tela di un dipinto. Tu non lo disprezzi il bello, Lee, sei un esteta e ne sei fisiologicamente attratto, eppure nella tua selezione delle res primeggiano quelle esasperate, allucinate, materiali di scarto incollati insieme con la vaselina.

Che la realtà ci sia lo ammetti tu stesso, anche se leggendoti si potrebbe quasi intitolare la tua opera omnia Il mondo come volontà e allucinazione. Tua moglie l’hai ammazzata davvero con quel colpo di pistola ‘accidentale’, ma da quel momento ogni bicchiere che tocchi è quello che si era messo lei sulla testa, quello che il proiettile avrebbe dovuto attraversare e fare a pezzi. ‘Lo spirito del male ha sparato a Joan per essere’ e tu, se avessi centrato quel bicchiere, probabilmente non saresti mai diventato uno scrittore. Adesso che ti guardo dritto nei ‘freddi occhi sottomarini’, qui seduti in un bar dell’interzona, mi rendo conto della valenza di quel bicchiere.

Mi rendo conto che tu scrivi per fermare e tagliuzzare sulla pagina la morte che ti divora dall’interno, scorrendo nelle vene come il liquido seminale di un centopiedi arrapato che si avvinghia alle nudità del tuo corpo avvizzito. La morte ha una velocità inversamente proporzionale a quella del racconto, quindi se il racconto della morte procede spedito e senza preoccuparsi di spiegare tutto, la morte rallenta, può essere letta come appendice di quel male che tu vuoi narrare nelle sue manifestazioni più disgustose, quelle che proliferano alla periferia della vita, là dove lo scopo non è più la felicità, ma sfuggire all’incubo della morte che in un continuo affastellarsi di cut-up scandisce il nostro progressivo precipitare verso il nulla.

Ad esempio, se ordiniamo un Dry Martini a regola d’arte, ci aspettiamo che arrivi un Dry Martini a regola d’arte, il nostro corpo si predispone ad accogliere quella cosa, perché noi abbiamo scelto quella cosa per soddisfare un nostro bisogno, che sia la sete o la dipendenza da una qualunque sostanza o idea non fa troppa differenza, eppure il cameriere, o meglio, il tuo cameriere, Lee, il cameriere che tu hai scelto di raccontare, ti porta un Martini molto poco Dry e con l’oliva in decomposizione, perché? Perché noi esseri umani non siamo altro che ‘un certo quantitativo di tessuti che invecchiano’, e se ci aspettiamo che la vita funzioni in un certo modo, ci allontaniamo dalla vita vera, perché la vita è soprattutto paralisi ontologica in cui la nostra aspettativa del piacere o è disattesa, o il piacere, per quanto intenso, si esaurisce, presto non è più e forse non è mai stato, e quanto più la sua rappresentazione resta viva nella nostra memoria, tanto più siamo portati a ricercarlo o a reprimerlo nell’odio.

Solo quando diventiamo consapevoli di essere posseduti dalla mano di un morto che aspetta di scivolare nella nostra come un guanto – permettimi di parafrasare questa tua espressione, Lee – solo in quel momento siamo pronti a ricevere il Dry Martini putrefatto, a riempire voluttuosamente di impronte digitali quel bicchiere che avrebbe dovuto disintegrarsi con un proiettile ma che invece è feroce e integro nelle nostre mani, come la mela di Eva prima del morso o come quella di Guglielmo Tell prima che tu decidessi di interpretarlo follemente quel giorno, e mentre giocherelliamo con l’oliva infilzata dallo stuzzicadenti, quell’oliva in decomposizione che galleggia come la sentina di una boa sulla superficie del nostro drink sbagliato, capiamo che in fondo desideravamo proprio questo, sguazzare nell’impossibilità cronica di comprendere e dominare la vita, accettare il suo essere intrinsecamente tossica, pasto nudo contaminato dalla stranezza del piacere e dalla certezza del male.

Da buon toy boy della dipendenza assoluta, tu vuoi sviscerare il queer, caro Lee, perché non è nel Dry Martini a regola d’arte che si rivela l’umanità nei suoi istinti più brutalmente genuini e umilianti, bensì nella sbobba annacquata che il cameriere ti porta stasera a questo dannato tavolino dell’interzona. Il Dry Martini putrefatto che non ordiniamo ma che inevitabilmente arriva è il manifesto della tua poetica, non trovi?

La bellezza – intesa come selezione dell’ideale nel reale – rimane ai margini come i contorni bruciacchiati di un foglio bucato dalla fiamma di un accendino, ed è nel buco che si allarga su quel foglio che penetra la tua storia. La tua scrittura non giudica mai, almeno mai direttamente e nessuno in particolare. Il tuo è un non giudizio sintetico sulla bestialità della natura umana universalmente posseduta dalla frammentarietà delle sue pulsioni libidiche.

Il mito integra la sua spiegazione, l’ ‘o μύθος δελοι οτι. Lo fa già a partire dalla faccia di chi ti circonda: ‘L’odio di Moor era una lenta, ininterrotta corrente, debole ma infinitamente tenace, che aspettava di avere il sopravvento su una qualsiasi debolezza altrui. Il lento sgocciolio dell’odio di Moor aveva inciso sulla sua faccia i solchi della decadenza. Era invecchiato senza fare esperienza della vita, come un pezzo di carne che marcisce sullo scaffale della dispensa’.

I lineamenti della distruzione sul tuo volto e sui volti dei tuoi personaggi, la cicatrice di un colpo di frusta sulla schiena mulatta di un ragazzo in pieno sole, il chiosco di cavallette fritte e stecchi di zucchero filato bianco impregnato di mosche, elementi come questi si coagulano nella narrazione senza la necessità di un filo logico, proprio perché la vita non è logica né uniforme. La vita, quella vera, è queer senza speranza. Il moralismo non è giustificato. Il sentimentalismo addirittura va punito, vero Lee? Non ce lo possiamo proprio concedere. Qui, ad esempio, scrivi: ‘Stai lontano, capito, e dormi. Si girò di un fianco dando la schiena a Lee. Lee ritrasse il braccio. Tutto il corpo gli si contrasse per lo shock. Lentamente si mise una mano sotto la guancia. Sentiva un dolore profondo, come se dentro stesse sanguinando. Le lacrime gli scorrevano sotto le guance’.

Nessuno deve salvarsi per essere libero. Solo là dove la luce comincia a estinguersi e la mente a chiudersi l’umanità è degna di essere scritta, perché in crisi d’astinenza – cosa c’è di più vero e inequivocabile di una crisi d’astinenza? – perché in quel punto l’umanità si spoglia di qualsiasi menzogna vitale, nella ‘doppia sovraesposizione simultanea’ per cui appare sia nella sua essenza di flaccida macchina schiava del desiderio e della noia, naturalmente frustrata, corruttibile e dipendente dal male, sia nella sua libera, luminosa, irrefrenabile voglia di vivere, proprio come in questo ritratto di te stesso mentre provi ad attirare l’attenzione di Allerton, il giovane ectoplasmatico dagli occhi viola di cui ti sei innamorato: ‘Mentre Lee si spostava di lato per inchinarsi nel suo compito saluto d’altri tempi, ecco invece emergere un ghigno di nuda libidine, distorta dal dolore e dall’odio del suo corpo mortificato e, in doppia esposizione simultanea, un dolce sorriso infantile pieno di simpatia e di fiducia, spaventosamente inopportuno e fuori luogo, mutilato, senza speranza’.

La tua scrittura a me piace molto, Lee, perché racconta il male non come un’entità metafisica o misteriosa, ma come qualcosa di fisicamente porzionabile e quindi, a fatica, ricomponibile nell’atroce semplicità di un oggetto, nel tuo caso di un bicchiere rimasto integro o, più in generale, in una materia di contatto tra Martini molto Dry e Martini poco Dry, eternamente sospesa in un bar qualsiasi dell’interzona.

Solo al confine tra la parte lucida rossa visibile della boa e quella sottostante, raggrumata d’alghe e tempestata di scheletrini di pesci morti, solo nel punto del piano cartesiano in cui le velocità inverse del racconto e della morte si incontrano, ha senso narrare l’umanità restituendole fugaci visioni di libertà, ricucendo i brandelli che di se stessa trangugia avidamente, esponendo quello che è il suo spettacolo più osceno, ma forse anche il più illibato e rivelatore di tutti.

L’Inesistente