La gente ricca riceve molti più doni di quella povera;
e quello che deve proprio comprare, lo ha sempre molto più a buon prezzo.
Heinrich Böll
Anni Sessanta. Hailsham. Un college in perfetto stile inglese. Cieli intrisi di goccioline rassicuranti ne delimitano i confini disegnando una superficie plasticosamente curva. Una bolla di goccioline rassicuranti. E in questa bolla crescono i bambini, sotto la guida di pazienti tutori. In questa bolla i bambini si muovono come i pezzetti di neve finta in un souvenir proveniente da un universo proibito che si potrebbe raggiungere in bicicletta. Bambini che ricevono un’educazione perbene. Bambini che corrono e giocano a softball. Bambini che cavalcano cavalli inesistenti in campi più o meno fioriti. Bambini che scrivono e disegnano. Bambini, apparentemente, normali. Anzi, bambini speciali. Bambini fortunati di essere lì e non altrove. Bambini fortunati perché non si vestono di stracci, perché sono liberi di ridere e di custodire collezioni private di oggetti tanto inutili quanto preziosi. Ma questi bambini non sono bambini. Questi bambini sono cloni dal destino già tracciato. Sono organismi virtuali. Sono organismi programmati per donare i propri organi, per disorganizzarsi fino alla morte in funzione della vita di altri, sconosciuti, organismi.
I cloni, alla graduale scoperta di uno scopo esistenziale imposto dall’esterno, associano la scoperta di un’identità altrettanto inscalfibile, la scoperta della possibilità di un riscatto esteriore (nel mondo di fuori) attraverso la presa di coscienza della ricchezza e unicità del proprio intimo (del mondo di dentro). E al centro di questa dicotomia mondo di fuori/mondo di dentro l’autore pone un’originale tematica del dono.
Si possono regalare molte cose. Un sasso, una conchiglia, la cornice di un quadro. Si può anche decidere di incartare il dono, magari arrotolandoci un nastro con tanto di fiocco. Ma se si tratta dei propri organi, se si tratta di donare i propri organi, la scelta è limitata, se non obbligata, e non ci sono nastri da scegliere. Non si può impacchettare un fegato con carta gaiamente variopinta. Gli organi servono per vivere; se ce li strappiamo di dosso non possiamo vivere più, non possiamo più andare a comprare l’occorrente per incartare il dono. Dopo due tre, massimo quattro donazioni, si finisce di donare, perché inevitabilmente finisce la vita dell’organismo pronto a donare. Allora è il dono stesso più che la scelta del dono a rivelarsi limitata. E il dono nei confronti di qualcuno è ancora dono, se quest’ultimo porta alla privazione totale di chi dona? Molti cristiani (probabilmente tutti) direbbero di sì: Dio, incarnatosi, ha scelto di donare tutto se stesso all’uomo senza pretendere niente in cambio, ma come puro atto di amore espresso attraverso il sacrificio di sé; e, d’altra parte, è proprio per questo che Dio, in Cristo, viene venerato dai suoi fedeli: per la gratuità del suo prosciugarsi universale nei confronti di qualcuno. Resta da chiedersi quale sia il senso di questo dono. L’amore per l’umanità. La manifestazione della propria grandezza da parte del donatore-creatore davanti agli occhi del ricevente-creato. Forse.
Il processo delle donazioni ad Hailsham nondimeno assume una forte connotazione morale, perlomeno indotta. I baby donatori, a grandi linee, sanno già in partenza cosa li attende: si sentono subito investiti dagli oneri di una missione che li rende speciali rispetto ai bambini del mondo di fuori. La loro specialità consiste nel donare se stessi fino all’ultimo brandello di tessuto vitale. Il loro è un sacrificio piamente regolamentato: prima delle donazioni devono mantenersi in ottima salute, non devono fumare e altre cose del genere. Questi bambini non hanno creato nulla, non hanno nessuna voglia di manifestare grandezza e nemmeno immaginano (almeno inizialmente) che cosa sia l’amore, eppure il loro dono è abbastanza speculare a quello di Dio che si fa corpo e poi distribuisce le sue carni agli uomini per redimerli dai loro peccati. C’è senza dubbio qualcosa di divino nel dono che i cloni fanno dei loro corpi; c’è qualcosa di rituale nella preparazione al ciclo delle donazioni; ma c’è anche un dettaglio che rende l’intera operazione priva di senso: bisogna a tutti i costi preservarsi al fine di attendere ai propri oneri di donatore, perché questo è il ruolo assegnato a ciascuno dalla nascita, perché vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare, certo, ma l’amore, che dovrebbe essere il fulcro del dono di sé (ammesso che questo dono abbia un valore etico, così come sollecitato fin dall’inizio dai tutori e dall’intero sistema di riciclaggio degli organi), si rivela completamente svincolato dal dono.
I cloni non donano pezzi del proprio corpo perché attraverso il dono hanno l’opportunità di esprimere amore per uno sconosciuto bisognoso di organi freschi: lo fanno e basta, perché sono stati programmati a forgiare i propri corpi allo scopo di decostruirli nel tempo a favore di entità che, per quanto è in loro facoltà sapere, potrebbero anche non esistere. Essi sono come piante in una serra che, una volta mature, vengono menomate foglia per foglia finché la fotosintesi le mantiene vagamente verdi. Sono piante istruite, su questo non ci piove: ore e ore di lezioni di storia, geografia, letteratura, anatomia (sì, perfino anatomia, perché il sesso fa bene al corpo, anche a chi è destinato a distruggere il proprio)… E poi laboratori di educazione artistica: un esperimento per vedere se anche i cloni hanno un’anima esaminando i loro disegni, le loro sculture, le loro poesie. I più belli sono premiati trovando collocazione nella galleria di Madame, la direttrice, la quale ogni tanto organizza mostre nel mondo di fuori con scienziati provenienti da tutta Europa per far vedere, con un sorriso agrodolcemente sostenuto, ciò che si può ottenere da cloni coltivati come Dio comanda.
Interessi politici, di marketing e di profonda religiosità, suggono linfa dagli elaborati artistici dei baby donatori. Questi ultimi, per dare una forma al loro amore, sostituiscono il dono con il baratto: durante certi periodi dell’anno (precisamente durante il Grande Incanto) è possibile scambiare oggetti (disegni, sculture e poesie, ma anche cianfrusaglie provenienti dall’esterno), che vanno a costituire piccoli angoli di libertà e di autoidentificazione assolutamente personali.
In questi angoli è possibile toccare e prendere coscienza dell’amore, della sua possibilità individuale e concreta; perché quegli oggetti richiamano a persone che possono essere amate; quegli oggetti rappresentano l’idea dell’amore che simbolicamente può unire due soggetti distanti nel tempo e nello spazio. Ed è quindi nel primitivo e obsoleto baratto, non nel dono, che si apre una prospettiva di rivincita per chi è costretto da una logica oscura a donare tutto di sé, tutte le proprie ricchezze; perché nel baratto si realizza un legame puro tra due soggetti che mantengono parte di sé in ciò che danno all’altro. Io ti do un polmone tu mi dai un rene. Il baratto è l’integrarsi organico di due individualità che non si disperdono, ma che continuano a respirare l’uno nell’altro. In qualche modo Kazuo Ishiguro riscrive l’amore sottoforma di baratto, ne mette in luce la forza delicatamente interiore e la completezza organica. L’amore non è universale, non è per tutti; l’amore unisce due persone, solo due persone che scelgono di barattare se stessi formando un tutto organico in cui gli organi dell’uno mantengono in vita quelli dell’altro.
Un giorno nelle mani di Kathy, protagonista e voce narrante del romanzo, capita una cassetta di Judy Bridgewater. Niente di che, musica da piano bar piuttosto scadente. Qualcosa però identifica quell’oggetto come qualcosa di ontologicamente unico. La canzone numero tre: Never Let Me Go.
Kathy è un clone, fabbricato a partire dal DNA di scarto di quell’umanità tanto amata da Dio, il DNA di una ladra di una prostituta di un’alcolizzata. Kathy non avrebbe superato i trentacinque anni di vita, non avrebbe potuto sposarsi: avrebbe potuto solo assistere donatori di organi per poi diventare lei stessa donatrice. Kathy, sola nella sua camerata, può solo fantasticare su tutto questo, può solo provare a credere di essere la spazzatura della Terra, una scatoletta di tonno trasformata in forchetta, eppure canta quella canzone stupida, la canzone numero tre: Never Let Me Go, quella canzone che adesso non è più stupida, perché ormai ontologicamente appartenente al mondo interiore… E lei abbraccia e culla un cuscino, amandolo con tutto il cuore, come il figlio che non avrebbe potuto mai avere.
L’Inesistente