Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio.
Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta,
è rispondere al quesito fondamentale della filosofia.
Albert Camus, Il mito di Sisifo, 1942
Sisifo spinge il masso verso la vetta, poi questo rotola di nuovo alla base del monte, e lui deve ricominciare tutto daccapo, in un moto sfibrante e sempre uguale, eternamente assurdo. Metafora semplice ed efficace per indicare l’impossibilità dell’uomo di accedere a una verità universale o, quantomeno, a un senso della propria fine. Ma se la pena di Sisifo si svolge nel silenzio atemporale dell’Ade, quella dell’uomo avviene sotto il battito delle lancette della storia. È un rumore sottile, quasi impercettibile, come l’aria che si respira. Per percepirlo è necessario fermarsi, bloccare il masso con la schiena usando il corpo come leva, asciugarsi il sudore dalla fronte, e ricordare. La memoria di ciò che abbiamo vissuto è la prova stessa che abbiamo vissuto nel tempo; nel tempo ci siamo trasformati e la nostra mente conserva i segni di quella trasformazione sotto forma di ricordo. Tuttavia, nel momento in cui rivolgiamo lo sguardo alla valle, dando le spalle alla cima che prima o dopo occorre raggiungere, compiamo un secondo, spontaneo processo di trasformazione: riesumando i ricordi degli eventi che ci hanno trasformato, trasformiamo quegli stessi eventi, illuminando alcuni aspetti e adombrandone altri, dando loro un’inedita ontologia chiaroscurale.
I ricordi forniscono dunque una testimonianza parziale, inevitabilmente edulcorata della storia del soggetto: come l’amanuense medievale, nel ricopiare i testi, spesso modificava e abbelliva secondo suo gusto il manoscritto in virtù dell’amore che provava per quest’ultimo, così noi finiamo per trasformare ai nostri occhi gli eventi che ci hanno trasformato attraverso il ricordo di questi eventi. La storia individuale si rivela un mantello continuamente rattoppato, agghindato, sfregiato, e non è mai in grado di coprirci nella totalità della nostra superficie, infondendoci un calore pieno e inequivocabilmente sensato, perché rimangono delle zone d’ombra dove si annidano gelidi spifferi di vuoto. Il taglia e cuci della memoria è un’attività immaginativa alla quale ci abbandoniamo istintivamente, ritoccando vecchie convinzioni e plasmando nuove presunte verità sul nostro conto. La storia soggettiva si configura come una sovrapposizione di immagini strutturalmente irrisolta. Eppure queste immagini assumono un valore forte per noi diventando in qualche modo vere, assolute, riproducibili all’infinito.
Un lucido interno polso; vapore che sale da un lavello umido dove qualcuno ha gettato ridendo una padella rovente; fiotti di sperma che girano dentro uno scarico prima di farsi inghiottire per l’intera altezza di un edificio; un fiume che sfida ogni legge di natura, risalendo la corrente, rovistato onda per onda dalla luce di una decina di torce elettriche; un altro fiume, ampio e grigio, la cui direzione di flusso è resa ingannevole da un vento teso che ne arruffa la superficie; una vasca da bagno piena d’acqua ormai fredda da un pezzo, dietro una porta chiusa: queste sono le immagini che ricorda, in ordine sparso, il protagonista del romanzo di Julian Barnes, e da queste cerca di ricostruire la sua storia. E lo fa perché decide di fermarsi, rivolgendo lo sguardo alla valle, dando le spalle alla cima che prima o dopo occorre raggiungere. Ormai pensionato e senza più capelli, Tony Webster riceve la lettera con cui un avvocato gli annuncia il lascito di cinquecento sterline da parte della madre defunta di una sua ex fidanzata. Oltre a ricevere i soldi (cifra strana per un’eredità, cifra dagli enigmatici contorni simbolici), Tony viene a sapere che nel testamento la donna gli ha affidato il diario appartenuto a un suo amico del liceo, Adrian, morto suicida nel fiore degli anni. La volontà di appropriarsi di questo diario (che Veronica, l’ex fidanzata, non ha alcuna intenzione di mollare), lo porterà a percorre a ritroso il filo dei ricordi che lo congiunge ad Adrian e Veronica. Il romanzo sembra svilupparsi come una classica detective story di stampo anglosassone; in realtà la ricerca del senso di una fine (quella del suicidio di Adrian) ben presto si evolve in ricerca del senso della fine, e il libro di Barnes può essere letto come una lucida e spietata riflessione sull’insensatezza della storia dell’uomo.
Il cervello di Tony, in un viaggio sempre più torbido, si srotola nella rievocazione della propria educazione sentimentale e di episodi salienti della gioventù che possano gettare qualche bagliore sul senso del gesto della madre di Veronica e su quello – solo apparentemente scollegato – del gesto di Adrian. Lui e la sua banda, ai tempi del liceo, indossavano gli orologi con il quadrante rivolto verso l’interno. In questo modo avevano la presunzione di ritagliare uno spazio intimo solo per loro, in cui il tempo poteva essere controllato, come un organo semivolontario. In questo esercizio di appropriazione organica del tempo, i ragazzi si ponevano quesiti esistenziali seguendo la formidabile e inquietante regia di Adrian, leader incontestato del gruppo. Adrian, citando Camus, ritiene che l’unico problema filosofico veramente serio sia quello del suicidio. Per Camus il suicidio si riveste di una precisa connotazione emblematica: da un punto di vista formale, si pone come la soluzione più logica all’irrompere dell’Assurdo nella storia, come semplificazione consapevole dell’Assurdo nell’accettazione del proprio limite nel nostro incontro col mondo. Ma il suicidio reale sarebbe filosoficamente improduttivo. Camus, infatti, propone un’etica della quantità per cui la vita va vissuta nella sua assurdità, facendo di questa assurdità la ragione per cui vale la pena vivere. La volontà di vivere nell’Assurdo del mondo si lega al principio biologico dell’autoconservazione.
Come Sisifo l’uomo è chiamato ad adattarsi alla propria sorte: è un adattamento drammatico, che implica un totale disinteresse per l’avvenire, la presa di coscienza dell’inesistenza di valori universali e un’attività frenetica rivolta all’immediato, perché unicamente la lotta in sé rende sensato l’uomo assurdo.
Adrian, però, si suicida. E non per finta. Su questa contraddizione lievita la riflessione di Julian Barnes sui concetti di senso/tempo/fine/storia, arrivando attraverso la narrazione a conclusioni non poco nichiliste. La storia è la fonte del nostro senso, dovrebbe spiegare perché siamo quello che siamo nel presente. Ma l’ontologia del passato mostra luci e ombre troppo malleabili. La storia è fatta dalle menzogne dei vincitori, ma anche dalle illusioni dei vinti: ‘è quella certezza che prende consistenza là dove le imperfezioni della memoria incontrano le inadeguatezze della documentazione’. Se il suicidio non è foriero di senso, per Barnes non lo è nemmeno l’adattamento. Adrian distrugge se stesso rinunciando all’adattamento: la fine della sua storia non ha senso, è semplicemente il frutto di una scelta, quella di non lottare nell’assurdità; Tony si è distrutto appiattendo e offuscando la propria storia nell’Assurdo, autoconservandosi in una quotidianità ripetitiva, superficiale, senza senso e senza fine. Il tempo non può essere domato al fine di coglierne il senso, neanche se giriamo verso l’interno il quadrante dell’orologio: il tempo è la dimensione in cui l’uomo è chiamato a trascinare il proprio masso, l’Assurdo, e non può essere capito fino in fondo in alcun modo, perché il senso dell’esistenza non è convulsamente dato da un’insieme di addizioni e sottrazioni, ma si perde in un accumulo di moltiplicazioni e divisioni inverificabili. Il senso è una cifra simbolica: cinquecento sterline.
L’Inesistente