Il tuttofare e la donna in verde

Una spennellata distrattamente generosa del tuttofare che rinfrescava la sala d’aspetto fece cadere una goccia di bianco sul pancione della giovane bionda in verde, ma lei, che tentava di prendere una bevanda alla macchinetta malfunzionante già da un po’, non pulì subito via la macchia, ritenendo più interessante osservare il piccolo globo di vernice convessa luccicare sulla stoffa carissima e di bassa qualità con cui si era fabbricata da sola un semplice abito estivo, e poi quel globo sfaldarsi sulla superficie lievemente increspata dai calci della bambina che provenivano da sotto, e precipitare verso l’orlo della gonna, là dove finiva la stoffa e cominciava il vuoto racchiuso dalle sue cosce sottili – oddio, mi scusi – disse il tuttofare ruotando la testa verso il basso dalla cima delle scale, attirato dall’improvviso silenzio prodotto dalla caduta della goccia di bianco, essendo stato il flusso di spiccioli nella macchinetta l’unico rumore nella stanza fino a quel momento – stia attenta, il bianco le sta scivolando in mezzo alle gambe, va a finire che poi sporca il pavimento – aveva gli occhi dello stesso colore del cielo screpolato sul bacio di Giuda nell’affresco di quel famoso pittore di cui non ricordava il nome, capelli ricci e scuri che sembravano asciugati con un brandello di Scottex unto dopo una doccia fatta di corsa, e labbra che si piegavano rapidamente all’insù, forse per effetto della frase pronunciata, che lui considerava una battuta divertente, e lei rispose a quel movimento mostrandogli con un gran sorriso le stelline metalliche del suo apparecchio – senta, dovrei avere una salvietta igienizzante nella tasca posteriore dei jeans – la mano di lei era rimasta a mezz’aria con una moneta tra l’indice e il pollice – non è il massimo, ma potrebbe funzionare – e di nuovo le labbra del tuttofare scattarono in direzione della guancia sinistra, massiccia come la sua persona e la tromba attorcigliata sulla pelle oltre le strisce della maglietta da marinaio che copriva l’altra metà del corpo tatuato di un angelo sterminatore – come vede ho entrambe le mani occupate, in una ho il pennello, nell’altra il secchio di vernice, e non posso mica lasciare il lavoro incompiuto proprio adesso, le pare? – non le pareva di aver visto quell’angelo nel cielo di Giuda, ma non ci sarebbe stato male – tuttavia, se non si schifa, le consento di sfilarmene una – con un guizzo del sopracciglio il tuttofare indicò dall’alto il proprio fondoschiena, autorizzando così la donna in verde a esplorarne i tesori, anche se lei non capiva la sua lingua, e cercava di mettere in un filo logico i movimenti e il suono di quello che diceva, accorgendosi che non importava molto cosa ci fosse dietro a quella forma, perché, nel suo esotismo, e forse proprio a causa della sua incapacità di raccontarsi del tutto, di collegare ogni singola parola a significati che non si esaurissero nell’ambiguità di un gesto, quella forma bastava a farle sentire che lui, nell’inesplicabilità della sua storia, poteva esserle estremamente vicino, e darle il sollievo fisico di cui aveva bisogno, e farle desiderare di restare, trovare un punto preciso del corpo di lui in cui ripararsi, la fossetta sotto lo zigomo che continuamente lui creava e distruggeva per via di quel ghigno compiaciuto o tic nervoso, ad esempio, lì avrebbe potuto sollevare i lembi di un rifugio epidermico per lei e la sua bambina, accucciarsi sul suolo di quella faccia senza storia, ascoltare tra i pori e le voglie, fiotti di sangue e cellule morte comporre la ninna nanna del futuro, e quindi addormentarsi, lasciare che fosse il sonno a prevalere su tutto – non è un tic, né è mia intenzione ridere delle sue disgrazie, mi creda, è semplicemente così da quando, anni fa, con uno strattone un cane mi fece ruzzolare per le scale, e qui vede, non avvicino troppo il secchio altrimenti me lo rovescio addosso, qui mi si è spaccato il cranio, se guarda bene si vede ancora la cicatrice, molti credono che una parte di me sia rimasta su quelle scale – il tuttofare riportò il secchio nella posizione originaria, aveva gli occhi lucidi, lei abbassò la mano con la moneta – sa, ci penso spesso a quell’incidente, da allora ho questo spasmo alla faccia e altre cose, ma il mio neurologo ha detto che posso passare il bianco sulle pareti senza alcuna controindicazione – la donna in verde schiuse le labbra, buttò fuori aria calda e fece un passo verso di lui – il cane stavo per portarlo fuori, le scale non avevano il corrimano, e lui a un certo punto si è messo a correre, mi capisce? – lei piegò il collo da un lato, come per farsi penetrare meglio dallo sguardo di lui, che, pur sonnolento, sembrava contenere una forza dirompente, come quella di un fiammifero acceso all’angolo interno di un enorme cubo di paglia bagnato di benzina – la mia testa cocciava sui gradini di marmo della casa di campagna mentre lui abbaiava – la donna in verde premette il volto sui jeans del tuttofare, sulla cintura in finta pelle nera – non ricordo a cosa abbaiasse, forse era il gatto dei vicini, che veniva nel nostro giardino a stuzzicare i pulcini – la donna in verde inspirò l’odore di jeans imbrattati di vernice, lui spinse le nocche della mano con il pennello sulla sua testa, lei rispose sfregando le stelline dell’apparecchio ai denti sul limite della t-shirt da marinaio di lui, allungando la punta della lingua là dove un lembo della maglia fuoriusciva dai pantaloni scoprendo un rotolo di grasso e un odore di patatine fritte mangiate non troppo tempo fa e mandorle sovrapposte a quello di ammorbidente alla lavanda racimolato sotto l’elastico delle mutande e una nota di urina non del tutto assorbita proveniente dall’interno che sembrava essersi gonfiato – credo fosse il gatto dei vicini, mamma chioccia dopo quel giorno non si è più fatta vedere – lei leccò la striscia di carne tra l’elastico delle mutande e la fine della maglietta, là dove le sue stelline metalliche avevano lasciato l’impronta rossastra di una circonferenza – ma cosa fa? – il tuttofare allontanò la testa di lei con le stesse nocche con cui l’aveva avvicinata – l’avevo avvertita che rischiava di macchiare il pavimento, l’avevo avvertita o no? – lui scese dalla scala, la tromba dell’apocalisse paonazza sul collo, e lei, spaventata, indietreggiò verso la macchinetta malfunzionante – non ha nemmeno accettato la mia salvietta igienizzante, sta sgocciolando dappertutto – lei non capiva quello che diceva, non capiva fino a che punto l’avesse sessualmente rifiutata, guardò in basso e vide le gocce di bianco sul pavimento, quindi mise una mano sotto l’orlo della gonna soppesando lo sguardo infiammato di lui, forse avrebbe fatto meglio a gridare aiuto – adesso è tardi – il tuttofare, facendosi strada, la urtò suo malgrado con una spalla, lei aprì le mani per proteggersi da qualcosa, la moneta cadde sul pavimento – lei non si muova, vado a chiamare la polizia – il tuttofare uscì dalla sala d’aspetto a passo rapido, il secchio di vernice in una mano, il pennello nell’altra, arpionandola con la punta del piede sbatté la porta alle sue spalle, mentre la donna in verde, che non si era mai sentita così svuotata di speranza, si rannicchiò sul pavimento appoggiandosi alla macchinetta malfunzionante, stese la mano che prima teneva stretta la moneta sul pancione e, le labbra ancora schiuse, contemplò l’orologio appeso sulla parete in alto, nella zona in cui il tuttofare non aveva terminato il lavoro.

L’Inesistente
Credits: Giovanni Boldini, Girl with a Carnation, 1912 [detail], GAM Milano