Elefanti

Aveva un elefante nelle mani e seguiva i movimenti che il maestro di danza mimava allo specchio, apriva i polmoni quando lui allargava le braccia e ruotava su se stessa espirando anidride carbonica nella palestra quando lui, accennando a una pirouette, le richiudeva. Ruotava su se stessa insieme a tutte le altre ragazze che avevano in mano un elefante e danzavano nel quadrato disegnato col gessetto bianco sul pavimento in ardesia, senza poter valicare i confini di quella forma, o meglio, alla quasi totalità dei corpi delle ragazze era concesso, ma gli elefanti, tutti di legno, ciascuno di un colore diverso e con la proboscide arricciata all’insù, non potevano toccare il suolo, né essere trasportati oltre il quadrato stabilito.

Scusa – sganciando i muscoli delle natiche durante una pirouette, era finita addosso alla compagna del quadrato vicino – sta’ più attenta, scema – lei strinse l’elefante viola come fosse il punto di equilibrio della sua sopravvivenza e riuscì a mantenerlo dentro i confini del quadrato, incassando il calcio mascherato da jeté che l’amica le aveva rifilato, facendola cadere per terra – ragazze siete mosce, stendiamo bene queste gambe! – l’amica continuava a tirarle calci fingendo di ballare – e uno e due – lei cercava di assorbire i colpi senza mollare la presa sull’elefante – e tre e quattro – ed ebbe l’impressione che il maestro allungasse apposta la serie dei jeté per osservare il dolore fisico che provava contorcendosi sul pavimento in ardesia nel tentativo di rialzarsi – e cinque e sei – gli occhi del maestro non avevano espressione, le sue iridi parevano così chiare da sciogliersi sulla superficie dei bulbi oculari come polvere di gesso liquefatto – insomma, vogliamo stenderle bene queste gambe o no? – forse aveva solo la vista annebbiata, in ogni caso quella situazione non le piaceva affatto, si sarebbe fermata, fanculo la lezione di danza, ma una scarpetta da punta le scartavetrò il mento, strappandole via un pezzo di labbro – le spalle non così tese, forza bambine, non siamo mica marionette, respirate – lei avrebbe voluto urlare, ma aveva l’impressione che sarebbe stato inutile, il maestro non l’avrebbe sentita e le altre ragazze avrebbero potuto abusare ulteriormente della sua debolezza manifesta – gli elefanti sempre in vista, mi raccomando! – schivò l’ennesimo jeté dell’amica e si rimise in piedi, decidendo che l’avrebbe tenuta d’occhio, perché in quel momento nessuno si sarebbe accorto di quello che stava succedendo, nessuno avrebbe potuto capire i motivi del suo forfait e finire quell’ora di danza, per lei, era diventata la cosa più importante, poi non avrebbe mai più danzato, lo disse all’elefante, glielo giurò mentre l’istruttore riflesso nello specchio mimava il gesto di baciarlo sulla guancia e l’amica le lanciava un’occhiata obliqua per vedere cosa aveva prodotto la raffica dei suoi jeté e a lei, le labbra rosse affondate nel volto senza occhi del suo elefante, che odorava come uno sterminato campo di lavanda, sembrò di intravedere una smagliatura di stupore nelle trame di quella maschera da perfetta ballerina, perché non aveva ceduto, perché non aveva lasciato il suo elefante, non l’avrebbe mai lasciato, neanche se il soffitto affrescato dal Perugino fosse esploso spolverando sulle loro teste le ceneri delle preghiere, le parole di pietà che le suore camaldolesi di quell’ex convento avevano pronunciato per salvare se stesse o il mondo inginocchiandosi sull’ardesia, quella che gli elefanti non potevano toccare, ma che le punte dell’amica macchiata del suo sangue martoriavano impudenti, e lei non l’avrebbe perdonata, avrebbe affrontato il giudizio universale circonfusa di lavanda, piuttosto – e ora prepariamo il passé – lei staccò l’elefante dalle labbra e sbuffò sollevando il ciuffo biondo cenere, non era certo la cosa più semplice da preparare in quel momento di profondo raccoglimento spirituale, ma cercò di concentrarsi sulla respirazione e ripensò ai movimenti da fare, ripensò allo sguardo malizioso e subito dopo spaurito della sua amica, che la prendeva in giro perché era troppo grassa, secondo lei, ma poi le rubava la colazione, la sua merendina con gocce di cioccolato, e se la mangiava nello spogliatoio dei maschi, si sedeva in un angolo e guardava fuori dalla finestra addentando placidamente il Pan di Spagna, perché non le importava di essere scoperta, anzi, era perfino possibile che volesse essere spiata, a giudicare da come guardava il maestro chino a disegnare quadrati prima della lezione.

Lo spogliatoio dei maschi era sempre vuoto, ridotto a un magazzino, lo chiamavano la stanza delle cianfrusaglie, perché quella era una scuola di danza femminile e si diceva che i maschi fossero stati trasformati in elefanti e che il maestro fosse l’unico maschio rimasto sulla faccia di quella terra, perché aveva assistito alla scena della trasformazione da una fessura del muro dello spogliatoio delle femmine, dove il bacio di una bambina l’aveva salvato, ma lei non aveva creduto alla storia della metamorfosi dei maschi in elefanti, gli aveva detto che era matto, l’aveva piantato in asso, e lui effettivamente un po’ matto era diventato, perché lei gli aveva detto che non lo avrebbe mai lasciato – contraiamo i glutei, respiriamo, allarghiamo bene il torace, espiriamo – l’amica ladra di merendine, nonché imperterrita tiracalci a tradimento, sapeva che la fessura c’era ancora e sperava di poter entrare nel cuore del maestro, uomo di bell’aspetto aromatizzato con quel pizzico di follia che alla fine non guasta, il giorno che l’avesse vista accucciata all’estremità della panca sbrindellata dello spogliatoio dei maschi, la testa ruotata di 45° gradi verso la finestra, le delicate fauci semiaperte, lo sguardo proiettato oltre la merendina, la mano libera sospesa all’altezza delle mutandine scoperte dal tutù – e questo vi sembra un arabesque, vi sembra vero, le vogliamo stendere bene queste gambe o no? – no, l’amica non aveva capito niente, l’elefante non andava mai perso di vista, l’unico modo per essere spiati era guardare attraverso il colore del proprio elefante, nel suo caso far germogliare campi di lavanda entro i confini del quadrato, solo così poteva dare senso al sangue versato, rubare all’amica il cuore del maestro, gettarsi con lui a perdifiato nel viola di quei fiori.

L’Inesistente
Credits: Piet Mondrian, Composition No IV, 1914