La bambina incappucciata siede alla tua sinistra, prende appunti anche lei, ti ha seguito fino all’aula del seminario con il quaderno di Beverly Hills sottobraccio, quello con in copertina il profilo cocainomane di Dylan, non finito in quinta elementare e rifoderato di coprente verde scuro per le versioni di latino del liceo da copiare al volo sul lato vergine, mantenendo il distanziamento sociale, ovviamente, un metro dietro di te e pronta a infilzarti con la sua matita rossa, una di quelle che appunta al lume di candela fin da quando eri piccino, chiamandoti di notte in vivavoce tutte le volte che non riesci a prendere sonno, una matita rossa appuntata per ciascun pensiero cattivo, e tutte le matite stipate nell’astuccio per ritrovarle il giorno dopo a scuola nella foderina estrema con il logo Eastpak cucito sopra, insieme alle formule del seno e del coseno e alla tua prima dichiarazione d’amore, straripante su un microscopico bigliettino ripiegato su se stesso come l’eco di un nome senza tempo unicamente devoto a se stesso, anche se l’astuccio non è sempre quello, anzi, a dir la verità non usi più nessun astuccio perché lo ritieni puerile, ma le matite rosse te le ritrovi lo stesso la mattina come gelide dita mozzate rapprese nelle lenzuola, oppure in semicerchio sul comodino o nei calzini della sera prima o nel bicchiere dello spazzolino, tanto che corri il rischio di scambiare una cosa per un’altra e di strofinarti via l’insalata intermolare con il dito di qualche cadavere che, beninteso, purtroppo ancora non sei tu, bastardissima cucciola paraumana, ti segue ciucciando una matita rossa all’angolo della bocca, incurante della polvere di lapis mista a saliva in espansione sulla guancia, sempre ingorda di tutto, non mi lascerà mai in pace, nemmeno dopo l’università, nemmeno dopo che mi sarò finalmente convertito alla noia, pensi tornando a guardare con preoccupazione le scarpe, scivolosissime sul marciapiede innevato, e l’ombra di lei, sovrapposta alla tua, un po’ inclinata dalla luce sghignazzante del lampione, be’ se proprio vuol venire, magari capita anche di divertirsi, e infatti, passato circa un quarto d’ora di ammorbante bla bla sul significato della Storia, lei, la fanciullina infame, ti bisbiglia qualcosa all’orecchio, un prurito diabolico passa dal timpano al nervo ottico, e di fronte a te una studentessa, vogliosa e pallida come una Giovanna d’Arco intimamente mistress, non ti scolla gli occhi di dosso, cioè ora che tu la guardi, lei non abbassa lo sguardo, anzi, quello sguardo sembra essere sempre stato su di te, raggomitolato nell’asola del polsino destro della camicia, inavvertitamente slacciata a scoprire un taglietto che la rasatura approssimativa dell’alba ti ha lasciato sul mento, e allora la testa ciondolante ti si pietrifica sul palmo della mano, capisci che è un punto di non ritorno, che se l’è cercata e più di una volta, rivedi in rapida successione flash di lei nei corridoi che ride biondamente con le amiche o che si china con la scusa di mescolare il caffè per non farti sbirciare nel suo WhatsApp mentre le passi vicino in biblioteca, come se tutto ciò non riguardasse me, scema, trasla pure la palettina grondante marrone sulla punta della lingua, bloccati pure di tre quarti a soppesare la posteriorità dei miei pantaloni aderenti, sei solo una cricetina bianca che sniffa un gruzzolo di semi di girasole per terra ma non sa da che parte spingere la ruota nella sua gabbietta, e tornando al tuo posto credi se la tenga qualche secondo lì, la paletta, per ustionarsi un po’, sorridi, l’hai beccata, non resiste più, un languido ciaffettio già percorre la polvere che vi separa, la bambina incappucciata ti infila una matita rossa nella mano, vuoi uscire con me, scrivi su un bigliettino, e lo pieghi tante volte su se stesso, poi lo riapri, piega per piega, lo stendi davanti a te, prendi la gomma e cancelli quello che hai scritto.
L’Inesistente