Il club 54 traboccava di fiori fosforescenti, materassi squarciati e persone assorte, persone immerse in bollicine di giuliva disperazione, sottoinsiemi di un insieme senza intersezioni, scoppiettanti in un ultimo calice di champagne da bere a piccoli sorsi prima di sbarcare sul nulla.
Materassi agganciati a reti metalliche da lingue bovine allungate strizzate e dipinte di nero pendevano dal soffitto sulle teste ancora intatte e apparentemente semoventi degli avventori in abito da sera; in ciascuno dei materassi, nei loro ventri di gomma piuma squarciati nel mezzo, pulsava una lampadina gialla gigante che, oltre a far rimbombare una musica di chiodi frullati e pulcini agonizzanti, fungeva da touch screen per ordinare drink.
Eccoci arrivati, disse il paramedico inarcando il sopracciglio sinistro e mostrando la scatola di fiammiferi al commesso tenendola fra indice e medio; sulla scatola, pur sbafato di rossetto, era visibile un numero, il 54.
Che cos’è? È il nostro apripista, l’ho trovato all’inizio di questa storia, e ci ha portato qui. Al club 54? Esatto, al club 54, una navicella spaziale decaduta rifunzionalizzata in chiave minimal glam preapocalittica, ti piace? No. Be’, ormai siamo qui, non dare troppo nell’occhio e ordina qualcosa da bere mentre io cerco una cella frigorifera, sai, ho bisogno di ghiaccio, subito; ti lascio la scatola di fiammiferi per dimostrarti che non ti sto fregando, e ti offro pure un drink, okay?
Senza aspettare una risposta, il paramedico lasciò cadere la scatola di fiammiferi sul cubo di legno che serviva da tavolino. Migliaia di cubi di legno costellavano lo spazio attorno al bancone centrale, che sembrava il disco della luna durante un’eclissi, schiacciato e infuocato ai bordi, straripante di bottiglie che sbucavano dai crateri come mazzi di fiori fosforescenti.
Ancora imbambolato dagli analgesici che gli aveva somministrato il paramedico, il commesso fece scorrere l’indice sul touch screen, che, nella sua rovente convessità, non era proprio comodissimo; il polpastrello continuava a scivolargli su spot di prodotti non più esistenti in quel mondo, finché non riuscì a cliccare il rettangolino LET IT BE SPECIAL, e una faccia tonda gli sorrise verdeggiante.
Prese la scatola di fiammiferi con la mano non fasciata e la fece roteare tra indice e medio, quindi l’aprì e ne estrasse un triangolino di carta tutto stropicciato. Doveva essere sfuggito al paramedico; poteva contenere un messaggio, un indizio nell’indizio. Fece scivolare il triangolino in un lembo sfilacciato della fasciatura.
In fondo al locale, la parete si modulava in archi a tutto sesto, forse delle porte. L’ultima a destra era inondata di luce dall’interno, come se nascondesse un frammento di sole artificiale. Davanti a quella porta scorse la sagoma oblunga di una donna vestita di nero. Capì che lo stava guardando. Lei mosse le labbra, lasciando che le parole si disgregassero fra i materassi appesi, ammesso che quelle fossero parole; teneva in grembo un coniglio bianco e faceva il gesto di accarezzarlo, ma il braccio terminava nel vuoto come l’estremità smaterializzata di un sogno. Le mancava una mano.
L’Inesistente
Credits: Salvador Dalí, La vision del primer molino, 1950s