Quando gli chiese se avesse mai soffocato nessuno, avevano superato la prima curva per tornare verso il lago, il sole cominciava a calare, sembrava a portata di mano, sembrava che quei rami si potessero staccare come le sbarre di una cella fissate con una manciata di terra umida là dove si inseguivano i cani, e in quella luce tenuemente smembrata dal legno, gli occhi di lei erano troppo vicini, avrebbero potuto schizzargli addosso come punte turchesi: lui no, non aveva mai soffocato nessuno, le rispose, ma preferì non farle la stessa domanda.
I cani s’inseguivano rotolandosi nelle pozzanghere che spuntavano tra gli alberi vicino alla circonferenza del lago che percorrevano ogni giorno, scoprendo nuovi odori di liquidi in cui strofinarsi per richiamare corpi di loro simili nel pomeriggio di quella o di altre vite – mi sento come una rana nella gola – fece lei stringendosi la trachea, al di sopra dell’abito bianco ricoperto di fiorellini rossi – in effetti la temperatura è calata – proferì lui a bassa voce attraverso il pile dello scaldacollo nero tirato su fin quasi agli occhi, perché se la luce di quel pomeriggio non era violenta, s’insinuava sotto le palpebre come una tela di ragno sfilacciata, deponendo microuova roventi che esplodevano a contatto col vento quando si provava ad aprire le palpebre – come? – i cani invece spalancavano le fauci come se quella luce avesse un sapore di qualcosa di vivo e le loro gocce di bava rimanevano per qualche secondo sospese a mezzaria se arruffavano le teste per mordersi, e sembrava impossibile distinguere la loro bava dall’acqua che si scuotevano di dosso, perché quella luce immobilizzava ogni cosa come sullo sfondo giallognolo di un dipinto ancora non asciugato del tutto – ho detto che fa freddo – lui si era abbassato lo scaldacollo e l’aveva guardata, alla fine del labbro inferiore sinistro lei aveva una minuscola cicatrice che diventava più profonda quando, come in quel momento, stava per scoppiare a ridere, e infatti scoppiò a ridere – scusa ma questa te la devo assolutamente raccontare – lui aprì meglio gli occhi perché lei le piaceva veramente tanto, anche se era troppo più grande di lui in tutti i sensi, anche se, di fronte a lei, lui si sentiva un esserino slavato e incompleto che portava i cani a spasso perché non aveva di meglio da fare – dovevo recitare una parte tragica molto importante e lì ci facevano lavorare sette giorni su sette e mica ti potevi dare malato altrimenti ti sbattevano fuori, e fuori, dicevano loro, non c’era niente, quel lavoro era tutto, e per un’attrice non c’erano altre vite possibili, capisci? – una due tre microuova gli esplosero sotto le palpebre, lui no, non stava capendo niente – era come essere un colore intrappolato nella stessa posizione per sempre, e invece i colori possono spostarsi – avrebbe voluto che lei sfruttasse la sua maggiore età e prestanza fisica per fare ciò che aveva sentito essere piacevole fare con le donne, pensò che ai cani non avrebbe dato alcun fastidio – insomma io avevo la mia carriera ed ero molto amata dal pubblico, ma non ero felice – sarebbero potuti andare dietro al capanno del guardiano, tanto gli era sembrato abbandonato da sempre e ci aveva già portato degli amici per giocare, era un rifugio sicuro, le avrebbe fatto fare tutto quello che era necessario, perché le parole che pronunciava, il suo accento, il modo in cui sfidava il vento spalancando e richiudendo gli occhi immensi, lo spaventavano, e voleva distinguere la bava dei cani dall’acqua del lago con quella specie di terrore, voleva che la fine trovasse uno spazio definito sullo sfondo di quel pomeriggio ancora fresco e, bella o brutta che fosse, voleva dare un nome a quella sensazione – non ero felice perché mi sentivo soffocare, così mi sono seduta sul marciapiede vicino all’entrata degli artisti a fumare una sigaretta e mi è passata una rana davanti – la cicatrice si era bloccata, distendendosi ad accogliere una lacrima, una piccolissima pozzanghera dove si riflettevano le bocche dei cani che si mordevano per gioco e il capanno del guardiano e le sbarre di quella cella così facilmente scomponibile – l’hai baciata? – lui si era stretto nella giacca quasi volesse rimpicciolire e tuffarsi nella cicatrice di lei, e separare l’acqua dalla bava dei cani in quella piccola pozzanghera, farsi dire che era stato bravo, farsi sparare lontano da un sorriso di lei – no, non l’ho baciata, la rana, l’ho guardata finché il mozzicone della sigaretta non mi ha bruciato le dita – lui guardò verso i cani continuando a camminare, mentre il vento deponeva altre microuova al posto di quelle già esplose – e quel giorno è morto mio padre – i cani avevano superato un ponte di assi di legno senza salirci sopra, ma correndoci accanto, schiumando nel torrente – ho lasciato il teatro dove lavoravo e sto facendo il giro del mondo, perché voglio essere felice, solo che a volte, in pomeriggi come questi, la rana che non ho baciato mi torna nella gola.
Il sole era sempre più prossimo a disintegrarsi nel lago, come quando un uovo si rompe male e parte dell’albume rimane sulle dita come un guanto tagliato a metà verso il centro della terra – tu credi nell’anima gemella? – non se l’aspettava proprio quella domanda, ma non voleva darle l’impressione di essere un fifone, così si sforzò di dire qualcosa – credo sia come separare la bava dei cani dall’acqua del lago, insomma, non è semplice – lei scoppiò a ridere, toccando con la punta della lingua la piccola cicatrice alla fine del labbro, e lo spinse via con una mano – che stupido, certo che non è semplice – lui rise di riflesso, cercando di mantenere l’equilibrio, aveva sbattuto la testa sulla corteccia di un albero marcio – io voglio che tu sia felice – disse lei tamponandogli il sangue sulla fronte, e lui capì che non avrebbe aspettato l’ultima curva, quella che conduceva dietro al capanno del guardiano: i resti del sole, come pezzi di guscio, galleggiavano sul lago, e i cani non si muovevano più.
L’Inesistente
Credits: Tamara de Lempicka, Andromeda, 1929