Aspetterò sempre una tua telefonata

Quando e se vorrai dammi una possibilità di parlarti a voce – diceva l’iPhone ombreggiato dal pollice che scorreva sul display come un compasso alla ricerca di un punto in cui infilzarsi e disegnare una microcirconferenza radar atta a ripescare dallo spam la prenotazione Qatar misteriosamente scomparsa nonostante le premure dell’amministrazione – avvocato, la prego, non si agiti, ha controllato direttamente dall’app? – ma l’app era andata tipo in tilt facendo svanire tutto ciò che era accaduto prima e dopo l’aggiornamento automatico – no, non funziona, darò uno sguardo nello spam – e così, allacciati gli scarpini Adidas Messi 15.3, regalo di Natale dei colleghi, forse un po’ maligni, visto che alla partitella aziendale del giovedì  gli urlavano – oh, non andare troppo avanti – affinché fungesse da filtro materico davanti alla difesa più che da calciatore dotato di piedi umani, e indossata la maglietta tarocca di Nedved impregnata di sudore eterno, acquistata alla bancarella del Piazzale per un impulso omoerotico neanche troppo latente, quando il campione ceco, biondissimo, sgambettava nella Lazio con il numero diciotto, e che miracolosamente ancora gli stava nonostante la pancetta da trentanovenne avvezzo all’alcol, l’avvocato correva per il parco, con i timpani stracciati dalla cover di Knoking’ On Heaven’s Door dei Television, scelta a caso per lui da Spotify, sempre magnanimo, al contrario dello stomaco che non gli dava pace, in preda a crampi da astinenza da tramezzino tonno e maionese, cui quel giorno aveva deciso di rinunciare per istantaneo Ramadan autopunitivo di primavera inoltrata e afosa e troppo triste per essere vera, come il piscio dei cani che a chiazze dense maculava il rettilineo, o l’assembramento di baby nordafricani intenti a filmarsi a vicenda, rappando testi forti – ho perso telefono, sim, rubrica, ma ho potuto conservare lo stesso numero – continuava il messaggio che l’avvocato si era ripromesso di leggere a tratti durante la corsetta brucia calorie sostitutiva del pasto, spostandosi verso il fiume, dove sperava di incrociare meno esseri viventi, dove sperava di focalizzarsi su un pensiero inutile e dolciastro, come l’ultimo profumo Tom Ford di cui si sarebbe spruzzato al duty free dell’aeroporto di Doha durante lo scalo, sebbene ora non avesse più tanta voglia di ritrovare il volo disperso nello spam.

Lei aveva perso telefono, sim, rubrica, insomma un sacco di cose, come se un buco nero avesse risucchiato tutto l’inessenziale, denudando le parti che per anni aveva stipato sotto carnevalesche maschere da superdonna che tutto intuisce e tutto risolve alla perfezione, e che ufficialmente non mangia solo la metà al cioccolato degli Abbracci Mulino Bianco, anche se quando lo veniva a riprendere a calcetto la sera, e si riparavano canarinizzati sotto la tettoia in attesa del tram – lui con le gambe rigate di fango già congelato nelle ferite, lei come al solito ieratica nel cappottino bianco della bisnonna con pelliccia vera di Bianconiglio – mangiavano proprio quei biscotti estraendoli da un sacchetto di plastica, e lui non solo le lasciava tutte le parti al cioccolato, ma anche tutte le ultime parole di cui andava ghiotta, e Nedved giocava ancora, con un altro numero e nella deplorevole squadra zebrata pigliatutto, ma sempre biondissimo, mentre lei aveva questa acconciatura da Belle Époque che nei romanzi di un tempo sarebbe stata definita corvina, ma lui preferiva non dare un nome ai suoi capelli e concentrarsi sulla boccuccia, che con un sorrisetto da assassina sbarazzina mordeva la parte al cioccolato, e sul suo sguardo, affollato di driadi dei boschi in perenne litigio sul semidio da inseguire e in cui fondersi per trasformarsi nell’albero più bello, un albero che nessun buco nero sarebbe stato in grado di sradicare, e lui si sentiva un po’ escluso, nonostante la manina di lei, stranamente callosa e inanellata di fidanzamento alieno, gli accarezzasse con isterica dolcezza il quadricipite peloso, facendolo sentire effettivamente al sicuro da qualsivoglia minaccia mondiale o borseggiatore, benché il suo zaino dalla zip difettosa contenesse soltanto un bagnoschiuma Dove mezzo spremuto e dal tappo opalino, di cui si vergognava un po’ per via dei compagni di squadra, e altri ninnoli poco virili, come il portachiavi con l’omino della Lego, tre bustine di Polase Plus al mandarino e un ricambio di calzini blu con fantasia di aeroplanini appallottolati nell’accappatoio tumefatto di spogliatoio, che lei fortunatamente non aveva mai visto nell’arco della loro relazione clandestina a cielo aperto, perché madame avrebbe dovuto felicemente sposarsi in ottobre, ma forse le driadi nei suoi occhi non si erano decise, alcune magari erano state addirittura defenestrate nel buco nero, altre ancora, le più determinate a complicare la morfologia di quelle tremende iridi boscose, avevano sussurrato nel nervo ottico che forse lo studente di giurisprudenza, tralasciando le sue opinabili ossessioni estetiche, il machismo poco pronunciato e la sociopatia che certamente non prometteva una carriera da sogno, in fondo era un gran fregno, dal DNA naif ma appetitoso, un incrocio tra Marlon Brando e Jean-Paul Sartre con cui figliare al più presto, e questa verginità era pur venuta l’ora di perderla, inoltre aveva una voce da sballo, sempre garbata alle driadi, e madame adesso voleva risentirla, quella voce, voleva perfino la possibilità di parlare, insomma un sacco di cose.

All’avvocato sembrò di precipitare nello spam, o buco nero che fosse, insieme a tutte le metà al cioccolato di Abbracci Mulino Bianco con cui aveva virtualmente continuato a nutrire madame fino a quel giorno, la superdonna che lo richiamava al disordine durante la corsetta al parco in pausa pranzo, quando, distratto dal sussurro delle driadi litigiose riecheggiante in quel messaggio ripescato per sbaglio, s’incagliò in un sasso e cadde tra gli sterpi acquitrinosi sminuzzati dal sole, e cominciò a tremare guardando i metatarsi di Messi arancione risplendere nel verde fluo abbrustolito della flora in riva al fiume, e vide un taglio in mezzo alla mano sinistra, più o meno nel mezzo del cammino della linea della vita, che, a giudicare dalla fragilità delle sue abitudini, gli era sempre sembrata troppo lunga – ehi tu, che fai lì per terra, vieni qui ad aiutarmi, ché è una roba enorme – disse un hipster con cappellino della Nike e occhiaie da scheletro maledetto che stringeva a sé una canna da pesca incurvata a dismisura – prendi il retino laggiù, dai che questa è bella cicciotta – l’avvocato, ancora stordito ma abbastanza integro da raggiungere carponi il retino, raccolse l’iPhone nel tragitto, e provò a scorrere il pollice per leggere l’ultima frase del messaggio, ma non ci riuscì, lo schermo si era rotto patinandosi di ragnatele capillari, manco fosse il campo d’allenamento dell’Uomo Ragno – vieni, vieni, porta il retino, sta uscendo – dai flutti scuri e probabilmente radioattivi del fiume emerse guizzando una carpa dai riflessi dorati – guardala – il pescatore era felice e all’avvocato sembrò di condividere un momento importante, infatti più che un pesce quella carpa sembrava un Pokemon rapito nell’attimo in cui si stava evolvendo – guarda quanto è bella, una bestia da record – annunciò giubilante il pescatore prendendola tra le braccia dopo averla delicatamente staccata dall’amo – peserà quindici chili, forse quindici e tre – l’avvocato contemplò per qualche secondo il taglio procuratosi alla mano sinistra, il sangue colava giù per il polso, quindi alzò lo sguardo e sorrise al nuovo amico.

L’Inesistente
Credits: Joan Mirò, Equilibre sur l’horizon, 1969