Aquiloni

Il guardiano del faro si alzò dalla branda e contemplò due bacchette di bambù sovrapposte a formare una croce davanti a lui, quindi mise su la moka e, sgranchendo le vertebre raggricciate dall’umido come in una retina di biglie, si affacciò a guardare il mare, e non c’era nessuna nave, ma tante persone a maneggiare cavi di aquiloni, rombi uguali per aspetto e dimensioni, ma di colori diversi, mentre col becco aquile calve staccavano occhi da pesci ancora vivi che, sulla sabbia scoperta dalla bassa marea, si contorcevano simili a pezzi di carta stagnola bruciati dal sole.

La puzza di bruciato lo fece voltare verso il fornello da campeggio su cui la moka si stava fondendo, perché aveva dimenticato di metterci l’acqua, perciò la tolse dalla piastra prima che esplodesse e approfittò dell’alluminio ancora morbido per levigarlo con il coltello e farne un piccolo faro, che lasciò a raffreddare sul davanzale, e con il manico plasmò degli omini, e con quel che restava del manico dei miniaquiloni, che infilzò negli omini servendosi di alcuni aghi, e infine dispose gli omini vicino al piccolo faro.

Giù al pub, sulla lingua d’asfalto che biforcava il mare circondato da montagne innevate e che costituiva l’unica via della città, c’erano alcuni polverosi giochi da tavola e un fortino con i soldatini, e il guardiano del faro quando si sentiva solo lo montava e, tra un bicchierino e l’altro, inventava storie di guerra, ma spesso si addormentava e non vinceva mai nessuno. Il pub, oltre ai giochi da tavola e al fortino, possedeva qualche camera in affitto e offriva tornei di freccette e hamburger di pesce o di granchio, quando di giorno diventava tavola calda, mentre, dopo quattro o cinque catapecchie di pescatori, là dove terminava la strada, faceva capolino la bottega della tatuatrice focomelica, accusata di essere una specie di strega e di agganciarsi a internet per spacciare oggetti maledetti sfornati nella sua fatiscente boutique, la cui insegna TATTOO di notte si illuminava con una T intermittente, unica luce insieme alla luna.

Disposto l’ultimo omino vicino al piccolo faro, il guardiano incrociò le braccia sporgendosi sul davanzale per osservare meglio la scena e si accorse che le persone non sembravano divertirsi, anzi, stringevano i cavi degli aquiloni con entrambe le mani, con la forza di chi teme di perdere qualcosa o qualcuno per sempre, affondando i piedi nudi nella sabbia per non farsi sbilanciare dal vento che soffiava gelido e sempre più violento, e un pesce saltellante in agonia sfiorò la caviglia di una bambina, che lanciò un urlo e si aggrappò a un bambino lì vicino, forse suo fratello, che staccò una delle mani dal cavo del suo aquilone per abbracciarla e sgridarla o incoraggiarla gridandole nell’orecchio, ammesso che si riuscisse ancora a distinguere una parola dall’altra con tutto quel vento, e un’aquila approfittò del momento e staccò il secondo e ultimo occhio al pesce, che nel balzo si era capovolto porgendo l’altra guancia.

Il guardiano del faro scese le scale a chiocciola e si avviò verso la bottega della tatuatrice focomelica che, a parte lui, in città era l’unica a possedere una moka, lei gli aprì la porta chiedendogli il motivo della visita e lui le disse che aveva voglia di caffè – sai cosa stanno facendo con quegli aquiloni? – chiese stropicciandosi gli occhi ancora cisposi di sogno – pare sia questione di vita o di morte – la tatuatrice si asciugò il viso e si ispezionò allo specchio mettendosi un velo di rossetto, i capelli tagliati a spazzola andavano dove volevano e nelle sue iridi crescevano boschi, quelli che il mare rifletteva quando in estate il ghiaccio colava giù dalle montagne, e le sue piccole mani, così abili a disegnare, erano solide e luminose come le chele dei granchi bianchi che, prima che la marea tornasse alta, zampettavano sulla sabbia trangugiando gli avanzi dei pesci lasciati dalle aquile, ed erano anche belle, quelle chele, pensò il guardiano del faro, che non credeva alla storia di internet e nemmeno che fosse una specie di strega, perché lui, semplicemente, credeva in lei a ogni costo – scusa – disse lei infilandosi il logoro saio di un suo ex amante e frate minore piegato su una seggiolina di paglia – a volte mi dimentico di non essere vestita – sorrise alludendo ai tatuaggi che ricoprivano ogni millimetro quadro del suo corpo raccontando ciò che aveva visto in città o l’esistenza delle cose immaginate al di là di essa – ho anche fatto dei biscotti con gocce di cioccolato ieri sera, se ti interessa – e il guardiano del faro ne afferrò uno con non dissimulata ingordigia, sbriciolando sulla barba e sui guanti senza dita – mi passeresti il cingolo dietro di te, quello vicino al megafono? – e mentre lei se lo annodava alla vita, la bambina che prima, sulla spiaggia, spaventata dal tocco molliccio del pesce, si era aggrappata a un solerte ed eroico bambino, si assopì un secondo nel tepore di quell’abbraccio e, mollata la presa del cavo, esplose come un fiore, spappolando con sé il suo vicino e molti pesci saltellanti in agonia, e le aquile, quelle vive o mezze mozze, spruzzarono su nel cielo in una bolla di piume inglobando gli aquiloni dei bambini morti, uno gialla e uno blu – e adesso che si fa? – biascicò il guardiano del faro con la bocca piena di frolla, esaminando i resti della strage e il panico dei sopravvissuti fuori dalla finestra schizzata di sangue – adesso bisogna intervenire – disse la tatuatrice radunando i suoi arnesi.

Ascoltatemi! – gridò la tatuatrice focomelica lottando contro il vento che sgretolava le parole – la situazione non è delle migliori ma, se seguite le mie istruzioni, non esploderà più nessuno… io posso aiutarvi! – e i sopravvissuti, uomini e donne di ogni età, stringendo ancora più forte i cavi dei rispettivi aquiloni, si voltarono spauriti a guardare lei, che nella mano destra reggeva un megafono e nella sinistra una borsa Luis Vuitton, sovrastata dalla sagoma del guardiano del faro, che a un suo cenno fissò a terra la seggiolina di paglia, martellando oblunghi picchetti là dove credeva che la sabbia avrebbe potuto reggere – bene, adesso formeremo una fila indiana e a turno mi porgerete obliquamente una mano, non quella dell’aquilone, mi raccomando, è l’unica soluzione! – il guardiano del faro le dette un pizzicotto perché aveva finito, lei sedendosi sorrise, mentre le persone si raccoglievano facendo attenzione a non inciampare in qualche carcassa di pesce o arto umano, e quando la fila fu pronta, lei estrasse dalla borsa una bacchetta di bambù, simile a un sottile pennello con aghi fissati alla sua estremità, che fece entrare nella pelle, tatuando aquiloni colorati sul palmo della mano libera che ciascuno, a turno, obliquamente le porgeva.

L’Inesistente
Credits: Joan Mirò, Etoile Bleue, 1927