Voi mucche, che vedo qui davanti a me, quante migliaia di litri di latte avete prodotto quest’anno?
E che ne è stato di quel latte che avrebbe dovuto svezzare vigorosi vitelli?
Ogni singola goccia è stata trangugiata dai nostri nemici.
George Orwell, La fattoria degli animali, 1945
Letteratura è lo schizzo di sangue che dà vita a un oggetto; vero o finto che sia, l’oggetto della letteratura comincia a respirare, a urlare, a sudare; sfogliando le pagine di un libro ne percepiamo le ossa, l’odore, le risa, il dolore; la letteratura muta l’oggetto in soggetto attraverso la parola, lo trasforma in uno specchio mobile su cui autore e lettore si riflettono nell’esperienza estetica intersoggettiva dell’invenzione verbale dell’oggetto. La letteratura non è una deviazione, né una scorciatoia, ma la pista solcata sulla sabbia dal culo di un bambino trascinato per le caviglie da un altro bambino. L’unica pista su cui le biglie diventano simbolo di qualcosa che deve essere lanciato e rincorso, perché ora quelle microsfere iridescenti respirano, urlano e sudano proprio come noi che lanciamo e rincorriamo, perché ora le biglie inglobano l’animalità di un poter essere la cui imprevedibile traiettoria è l’essenza del gioco.
Letterarietà, invece, è la trasposizione idealistica di un oggetto sulla carta. Allo scrittore non importa che ciò di cui scrive viva nella scrittura o abbia un legame organico con la vita. Il suo oggetto è vuoto di vita all’origine; è un oggetto che non sarà mai soggetto, non giocherà mai a biglie con noi, se non nelle scialbe vesti di amico immaginario, accanto a un mare che non scroscia e non fa schiuma. Non è stato iniettato neanche un eritrocita, a quell’oggetto, e rimarrà dunque la proiezione ectoplasmatica di un desiderio che non ci appartiene. Questa distinzione tra letteratura e letterarietà (che troppi ignorano o danno per scontata), non è solo fondamento dell’ultima opera di Aldo Busi, ma è anche la chiave (o una delle chiavi) per capire e apprezzare la poetica dell’autore nella sua interezza.
Busi dimostra di essere stato (e di essere) uno dei più importanti autori italiani; uomo polytropos che, follemente volando, ha scritto capolavori; portatore sano dei quattro principi con i quali George Orwell, nel saggio Why I Write, definisce il prototipo dello scrittore: 1) Sheer egoism; 2) Aesthetic enthusiasm; 3) Historical impulse; 4) Political purpose.
Le vacche amiche di Busi, vere o finte che siano, grondano sangue: quello della letteratura, quello che oggi rischiamo di perdere a goccia a goccia, come da una mammella inceppata, perché se la cultura non è istantaneamente edibile, se non è twittabile per crogiolarsi in un jackpot di smile sui social, è bandita per eccesso di pensiero. Sono ‘tre donne a priori’, le vacche amiche di Busi; immagini moltiplicabili ad infinitum di una sola donna, che intreccia la propria storia con la storia dell’autore. Busi racconta se stesso ai lettori con la feroce onestà di un intellettuale frustrato il quale, tuttavia, non può fare a meno di denudarsi scrivendo, perché ha ancora molte cose da dire, perché scrivere è la patologia ritmata della sua vita, del suo amore per la vita. Scrittura e amore sono due cuori legati allo stesso pacemaker, ma dai battiti sincronicamente incompatibili. Da questo paradosso scaturisce un ludico dramma cerebrale, che stilisticamente si traduce nell’alchimia della parola – di cui Busi è maestro, dagli anni ’80 a oggi – la parola scabra che melodicamente trascina, tessendo tessere narrative che scorrono su un mosaico la cui figura termina là dove riparte il racconto.
Il racconto che Busi predilige è quello divertito e divertente, che sviscera la sessualità sulla fune di un equilibrista costantemente in bilico tra vagito intellettuale e virtuosismo della carne. Tuttavia, il discorso sulla sessualità trabocca dal vaso della letteratura, sfrigolando sull’asfalto marcescente della cronaca. Reprimere la sessualità è un crimine politico: questa è la denuncia di Busi. L’omofobo è un omosessuale represso e, perciò, un assassino a briglia sciolta: sottomettendosi alla negazione di sé, uccide la morale; consegnandosi alla paura, priva di dignità ciò che spaventa, ciò che è arbitrariamente categorizzato come asistematico.
La paura in generale (e, in particolare, l’omofobia) genera atti di sopruso e violenza, che testimoniano un processo di adattamento alla criminalità onnidilagante, al quale porci camuffati di varia estrazione – eminenze, magistrati o onorevoli reucci di periferia – non si oppongono, perché sono loro i primi a essersi alleati in blocco per aizzare la corruzione e l’iperverticalità del potere in Italia, paese dal bigottismo apparentemente inestirpabile. Perfino gli omosessuali non repressi sono bigotti, si autoghettizzano: ascoltano la stessa pseudomusica fashion, comprano i vestiti da H&M o da Zara (purché ci siano i saldi!) e, sempre devoti alla disimpegnata isteria del sesso mordi e fuggi, sfilano come cyberpavoni ai Gay Pride. La sessualità, però, non è una cosa di cui andare fieri: la sessualità è, punto. Non è plastilina colorata da modellare e da sfoggiare una volta modellata, non è un prodotto religioso o culturale, non è merce etichettabile, non è un manichino da mettere in vetrina né da occultare per sfizio o per vizio nel retrobottega della Chiesa. D’altra parte, la membrana che separa il maschile dal femminile non è di lana di roccia, ma di un tessuto assai più permeabile. La sessualità è una bestia liquida incorruttibile, che scivola nelle arterie trasportando DNA; è mare che scroscia e che fa schiuma; è la nostra letteratura, il gioco di lingua che può salvarci.
Vacche amiche non chiude un cerchio iniziato con Seminario sulla gioventù nel 1984, ma ne apre un altro, sul presente e sul futuro. Il compasso si allarga. Busi parla ai giovani, o meglio, a chi ancora ha voglia di imparare. Parla senza la rabbia di un nostalgico, ma con la lucida loquela di chi percepisce la necessità di un cambiamento radicale – nella civiltà, nell’umanità e nell’animalità degli italiani – per dare alle parole, anche a quelle più umili, un significato preciso restituendo loro la forza di una primitiva sapienza, per una nuova educazione fatta col latte e col sangue: ‘Poiché l’unica maniera per andare avanti è andare indietro, ripartire e ripatire fanno tutt’uno da che umanità è umanità. Nessuna umanità ne ha mai fatto un dramma, è normale che gli zoccoli vengano inventati da chi è andato a piedi nudi, si impara e si insegna e deve essere esaltante per chi è sempre andato con gli zoccoli costruire i rudimenti delle scarpe che non farà mai in tempo a portare’.
Non si tratta soltanto di un’autobiografia, per giunta non autorizzata (e poi, da quale autorità?): Vacche amiche lancia una biglia da rincorrere, una Animal Farm alla rovescia, che coltiva bellezza, una società finalmente atea e orizzontale che estingue abusi e tabù sulla sessualità, un’utopia in cui il salame si taglia di sbieco.
L’Inesistente