Mi piace il rumore del mare quando è morto, quel silenzio allucinante che mi fa sentire importante, e sola e vasta come una valle ricoperta di brina, quando è tardi e tutti o quasi s’infilano in branda a contare le modelle a pecorina, come usano dire i marinai dell’Audace 54, mentre io resto fissa a poppa sotto le stelle a farmi sbattere dal vento, quando si vedono soltanto i pesci volanti saltare a pelo dell’acqua per sfuggire ai pescecani scintillanti e mi viene da urlare – ignoranti! – perché il motore è vicino e rischia di tritarli tutti in un secondo e mescolare le loro viscere alla brodaglia del mondo che nel buio si allontana, e pace se non posso parlare, se sono solo una bandiera tricolore della marina militare perché, credetemi, anche i più frivoli brandelli di stoffa custodiscono segreti che, pur di non confessare, gli esseri umani getterebbero a mare.
Era stato uno scherzo riuscito male a uccidere il ragazzo nella doccia, almeno per quanto le mie fibre sdrucite riuscissero a captare oltre l’oltraggioso ansimare del vento, che all’arrivo dei due giovani marinai sulla scena, era lievitato, contribuendo a guastare il mio momento contemplativo serale, ma pazienza, la storia sembrava interessante perché il ragazzo, dicevano, ci era rimasto secco, o meglio, aveva perso sangue e l’avevano fasciato con un lenzuolo e gli avevano buttato una coperta di lana grezza addosso, ma non si riusciva a calmarlo perché aveva – tipo delle convulsioni – o un attacco di panico, e l’escamotage del calzino di spugna in bocca per soffocare le grida non aveva funzionato, anzi, era sbiancato e faceva fatica a respirare e boccheggiava come un pesce volante trafitto in volo dall’arpione di un sub, ed era ancora nudo, il poveretto, e imperlato d’acqua insaponata, perché con la complicità del terzo, il compagno di cabina che faceva da palo, e che ora si appoggiava alla ringhiera con gli occhi sempre più vuoti lasciando che uno dei miei lembi gli solleticasse la guancia, avevano fatto irruzione in bagno con i passamontagna, simulando di essere due soldati americani mandati a torturare un presunto terrorista dell’Isis fatto prigioniero, e dopo averlo umiliato a botte e sussurri e bullizzato sessualmente tra il serio e il faceto, gli avevano puntato alla tempia una pistola ad aria compressa, una di quelle che si usano nelle esercitazioni vere, allora il ragazzo si era spaventato, ma i suoi aguzzini non uscivano dalla parte, e lui supplicava che la smettessero e loro, sempre più eccitati non la smettevano, finché un piede in fallo non l’aveva fatto scivolare, provocando una caduta collettiva a effetto domino, e una pallottola era schizzata sulla parete piastrellata di bianco che, disegnando nell’aria una garuffa da maestro, aveva bucato il torace sotto l’ascella – tra una costola e l’altra, forse – perforando il polmone sinistro.
Il capitano dell’Audace 54 lavorava sotto mentite spoglie per una multinazionale leader nel sales trading di combustili vegetali e non solo, e quando era partito lo sparo era in conference call e aveva le cuffie Bluetooth alle orecchie, sosteneva il ragazzo che aveva fatto da palo, e diceva a un cliente vip che il carico di olio di palma sarebbe giunto nottetempo, e che era in una botte di ferro, perché lui in marina conosceva i pesci giusti e gli affari avrebbero preso il volo, insomma, se il capitano non aveva sentito lo sparo potevano subito allarmare il resto dell’equipaggio e chiamare un elicottero e portare l’amico ferito all’ospedale più vicino e poi inventarsi una scusa – folle! – esclama l’altro, sarebbe successo un casino, sarebbero finiti sul giornale, il capitano avrebbe dovuto affrontare i familiari e la NAFTA e i tribunali della patria e magari essere costretto a partecipare a qualche talk show e a dare spiegazioni a Simona Ventura, spiegazioni che non poteva dare, e la vita di tutti – capisci? – di tutti sarebbe andata distrutta, non solo quella di una persona ormai mezza spacciata, e non c’era tempo per la paura, bisognava agire con razionalità, perché il loro collega di sotto soffriva come un agnello sgozzato – a metà! – aggiungerei, anche se non avevo mai visto un agnello, e presto sarebbe morto, e dovevano sbarazzarsi del corpo in fretta, immergerlo nell’olio di palma e gettarlo a mare, e se alla resa dei conti fosse mancata una botte in stiva, amen, avevano un piano.
Il piano prevedeva un sacrificio – per il bene comune – lui, il compagno di cabina, ormai ex, avrebbe dovuto concedersi al capitano, che già da mesi ci provava, innegabile fosse un bel bocconcino, e tutti quegli occhiolini e tutte quelle piccole esenzioni, mai si era chinato a novanta a pulire il ponte durante i suoi turni di corvée così stranamente blandi, per non parlare delle sigarette e di quella copia di Tex Willer sotto il cuscino, per non parlare del bacino sulle labbra che la scorsa primavera con la scusa di festeggiare la sua promozione aveva dato al ragazzo morto, e capiva che era stravolto, e magari perfino innamorato, ma doveva darsi una scrollata e – voltare pagina – quel segreto li avrebbe uniti ancora di più, sarebbero stati amici fino alla tomba e per la pelle, nel senso etero del termine e, promesso, avrebbero continuato a giocare a biliardo insieme come se niente fosse successo.
Il carico di olio di palma stava per raggiungere il porto, e mentre l’alba emergeva dal mare come un enorme monolite rettangolare, una lapide rosa costellata dalle carcasse di pesci volanti tritati dal motore su cui le ombre dei gabbiani imbrattati di nafta scorrevano spargendone il fetore, per tre volte bussò tremante un pugno alla porta del capitano.
L’Inesistente
Credits: William Turner, Slave Ship [slavers throwing overboard the dead and dying typhoon coming on], 1840