If there was hope, it must lie in the proles, because only there,
in those swarming disregarded masses, eighty-five percent
of the population […], could the force to destroy the Party
ever be generated […] If only they could somehow become
conscious of their own strength, would have no need to conspire.
They needed only to rise up and shake themselves
like a horse shaking off flies.
George Orwell, 1984, 1948
Bianca ha diciannove anni e lavora da un parrucchiere. Lava le teste. Vive insieme al fratello nella casa dei genitori, morti in un incidente stradale. Abbandonati gli studi, con la loro pensione da orfani non possono permettersi molto. Il fratello, tuttavia, sarebbe disposto a rinunciare a tre pasti su tre – tre pasti su quattro, si corregge – e invita la sorella a licenziarsi. Lei sorride – forse – e non si licenzia. Nel giro di una settimana il fratello trova lavoro in una palestra: lava i pavimenti. Cosa possono aspettarsi dal loro futuro? Un giorno arrivano (con l’intenzione di restarci) il bolognese e il libico, due persone amiche del fratello, o che il fratello preferisce considerare amiche. Li ha conosciuti in palestra: lavorano lì anche loro e si dedicano al culturismo. Figure mestamente uguali, distinguibili soltanto per una lieve venatura della voce. Ombre sovrapponibili.
I due uomini – si scopre – hanno stretto un patto di sangue; si sono fatti un taglio sul palmo della mano e hanno unito il loro sangue. In dono portano scorte di integratori proteici dai nomi fantascientifici, come i Fuel Tank 3000 che forniscono tutte le sostanze nutritive necessarie a un fisico vincente. E, in cambio dell’ospitalità, lavano i piatti. A turno, indifferentemente, si scopano Bianca.
La mattina Bianca va a lavare le teste e gli altri tre – dicono – vanno a cercare lavoro. Ma non si trova. Neanche uno straccio di lavoro. La sera si discute di cose varie senza una direzione precisa. Un piano, servirebbe un piano. Quale piano? Bianca fa finta di non ascoltare; cerca di dimenticare subito; una nube criminale si addensa nella sua mente. Poi tutto sembra dissolversi davanti al televisore, il dio della casa la cui silenziosa, apatica, venerazione è corroborata da una vaga mania per il videonoleggio. Film porno, soprattutto. Ma non solo. Film di qualsiasi tipo. Le vittime sacrificali del dio della casa non devono avere una struttura particolare. Il videoregistratore prende quello che viene. I fedeli spesso si addormentano sul divano o restano a guardare il film fino alla fine senza dire una parola.
La parola ‘lumpen’ viene associata a Lumpenproletariat: ‘Espressione foggiata da K. Marx (ted. «proletariato straccione») per indicare il ceto infimo delle grandi città, formato di elementi economicamente e socialmente instabili, per effetto in genere del fenomeno della disoccupazione e della sottoccupazione’ (Enciclopedia Treccani). Ma in tedesco, ‘lumpen’, significa molte cose: straccio, delinquente e perfino bulbo oculare. È un termine che, in qualche modo, ha un rapporto con la luce, con la vista. Come se dal basso, anche dal gradino più basso, fosse possibile vedere qualcosa di significativo.
Bianca sfoglia ‘Donna Moderna’ e risponde al quesito ‘Se fossi un pesce, che genere di pesce saresti?’ – nella risposta della ragazza è racchiuso tutto il senso, tutta l’assurda dignità, di guardare anche dal gradino più basso – ‘Uno di quelli che si usano come esca. Una volta, da bambina, ho visto un pescatore […] Vicino la residenza del papa […] Le esche erano pesci minuscoli, trasparenti, con riflessi argentati [Vi erano pesci di due tipi] Quelli grandi erano i genitori e quelli piccoli i figli […] I primi, in effetti, li aveva pescati, ma i secondi li aveva comprati in una pescheria […] Non erano buoni da mangiare, servivano solo come esca’.
Il piano. Ecco il piano. Bianca comincia a prostituirsi presso un enigmatico ex divo del cinema che si fa chiamare Maciste perché ai tempi d’oro, oltre ad aver vinto il titolo di Mister Universo, aveva interpretato quel ruolo in alcuni film. Adesso se ne sta rinchiuso tra i ninnoli delle sue antiche vittorie in una casa enorme che ha adibito a bordello e palestra personale. Coltiva la sua passione per i muscoli e il sesso con una violenza sacrale. Le luci sono tutte spente. Lui è rimasto cieco in un incidente d’auto.
Cosparge il suo nuovo fiero pasto d’unguenti, lo rincorre per le stanze, lo sbatte sulla panca, lo possiede senza mai saziarsi. Bianca deve trovare la cassaforte. Lì c’è il futuro di suo fratello e dei suoi amici. Magari anche il suo. La cerca, ma della cassaforte nemmeno l’ombra. Bianca è ormai invischiata nelle tenebre di Maciste: ‘Dal momento in cui l’avevo visto nudo, enorme e bianco, una specie di frigorifero rotto, [era come se] tutto si fosse fermato (o io mi fossi fermata di colpo) e le cose adesso succedessero a un’altra velocità, una velocità impercettibile che equivaleva alla quiete’.
Roberto Bolaño descrive l’invischiarsi di Bianca in Maciste servendosi del non detto (e del non visto), con un’attenzione spietata per dettagli apparentemente futili, svolgendo con stile unico una raffinata analisi del sentimento del dolore (più che dell’amore); il sentimento di un dolore universale. Maciste, ad esempio, è un personaggio tragico, e nella sua decadenza svela un dolore paradossalmente simile a quello di Bianca e suo fratello. Sulla sua pelle di grande pesce sfavillano riflessi argentati degni di un lumpen, raggrinzisce pagina dopo pagina: è un’esca pure lui.
Il titolo del film che si è ispirato a questo romanzo è Il futuro. Compare qualche volta nel testo la parola ‘futuro’; se ne discute in brevi botta e risposta. È un tema che coinvolge i giovani, e i protagonisti (almeno, Bianca e suo fratello), sappiamo che sono giovani. Però, passato presente e futuro hanno confini decisamente permeabili nel romanzo di Bolaño. Il futuro, ad esempio, è racchiuso in una cassaforte inesistente; e questa cassaforte, finché Bianca non si autoconvince della sua inesistenza, è nascosta da qualche parte nel bunker del cieco Maciste, dove si rievoca il passato in un presente che non sembra avere termine, un punto di svolta verso il futuro; e se questo futuro c’è, è un futuro orbo, come orbo è colui che lo custodisce.
Il tema vero di Un romanzetto lumpen è il grido disarticolato degli straccioni e dei reietti. La giovane età li non salva. L’amore non li salva. Sono esclusi dalla vita. Sono relegati alle circonferenze più oscure e lontane della vita, dove il tempo gira intorno a se stesso con un Jack Daniel’s eclissato nel cartone. In loro non c’è, non può risiedere quella speranza di rivoluzione che ci aveva visto George Orwell; soprattutto perché quell’eventuale speranza implicherebbe una consapevolezza inconcepibile in questo romanzo; quella speranza non sarebbe inserita in un contesto storico, geografico e politico (contesto evanescente in Bolaño; concreto e permeante in 1984).
Le esistenze di questi proles si disintegrano nel vuoto e nel pianto, ciascuno devastato nella propria solitudine. Esistenze destinate a consumarsi e a rimanere nell’ombra. Almeno, finché qualcuno non racconta la loro storia; finché qualcuno non articola il grido in racconto, come fa Bolaño. Allora quella storia diventa una forma di vendetta, un riscatto ontologico a posteriori. Gli straccioni diventano cavalli eternamente incandescenti su cui nessuna mosca oserebbe mai posarsi. La letteratura può fare anche questo.
L’Inesistente