I limiti del mio linguaggio significano
i limiti del mio mondo.
Ludwig Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus, 1921
Ormai non siamo più abituati a scrivere lettere. Usiamo altri strumenti, copiosamente elargiti dalla tecnologia per aiutarci, per liberarci dall’inutile schiavitù di pensieri troppo arguti, per semplificarci la vita. Usiamo le email (quasi solo per lavoro o per ricevere imperdibili offerte commerciali), gli sms (ma ormai nemmeno quelli); soprattutto Facebook, WhatsApp o Twitter, con i suoi cilestrini volatili virtuali, che sembrano goccioloni di Valium solidificati in stampini da appendere su alberi di Natale in pura plastica Ikea. Questi uccellini sono gli eredi dei piccioni viaggiatori, ma non respirano, e non devastano le terrazze con i loro escrementi. Finalmente ci siamo evoluti. La nostra vita si è semplificata. E nel giro di qualche anno i Google Glass ci diranno perfino cosa è giusto vedere, al momento giusto e nel posto giusto, e le nostre sinapsi potranno eludere gli oscuri tunnel che conducono alle idee, e i nostri occhi galleggeranno in rassicuranti caverne di vetro senza perdere tempo. Il Messia è giunto. Fantastico.
Però, sì, c’è un però. Semplificare non vuol dire impoverire. Accelerare non vuol dire arrivare primi. La comunicazione è diventata il Dietor da far scivolare distrattamente nel caffè la mattina, prima di fuggire verso improrogabili impegni. In America, in qualsiasi stato andiate, troverete la stessa tipologia di bar e una similissima, transoceanica, specie di Dietor ad attendervi al bancone. Tracce radioattive di un Occidente che pensa il meno possibile, scrive tanto e legge poco.
La comunicazione, su scala mondiale, è diventata cibo per astronauti; per astronauti dal sorriso troppo largo volteggianti in navicelle spaziali che difficilmente cambiano direzione, tanto che non c’è neanche bisogno di premere un pulsante. La comunicazione si è liofilizzata perdendo colore e sapore; da nutrimento è diventata condimento, spesso superfluo se non fastidioso. Se si può parlare di evoluzione tecnologica, si può anche parlare di involuzione del linguaggio. Tutto, o quasi, si riduce ad un CMQ TNX FYI BRB TVB; o, nel migliore dei casi, a un sempre suggestivo SMILE. Anche se c’è poco da (sor)ridere. Davvero poco. Se i nostri phone sono smart, noi siamo indecentemente poveri. Povera gente. E non la Povera gente di Dostoevskij.
Amos Oz pubblica il suo libro nel 1987, più di un secolo dopo l’uscita di quello del grande scrittore russo. A lui non si ispira, non c’è legame tra le due opere se non il denominatore comune dato dal genere epistolare. Come Dostoevskij, infatti, Oz scrive un libro di lettere (intervallato da alcuni telegrammi). Lo stile, certo, è completamente diverso. Ma entrambi gli autori danno lustro alla comunicazione, la celebrano come forma d’arte e di verità, come fonte di ricchezza, come il palombaro che va a recuperare i relitti dell’anima, scovando inimmaginabili tesori, i quali alimentano la nostalgia, fanno gioire e soffrire, custodiscono frammenti di senso.
I personaggi del romanzo di Oz si denudano (o vengono denudati) attraverso la propria (o altrui) narrazione di se stessi: ‘Come dopo un incidente aereo […] ci siamo messi a decifrare, per corrispondenza, il contenuto della scatola nera della nostra vita’. Le pagine più belle sono quelle che coinvolgono Alec e Ilana, divorziati da sette anni, ma ancora uniti da una raffinata tenebra di rancore e passione – puro piacere leggere quelle parole. Nondimeno, ogni personaggio firma con la propria penna; ogni lettera trasuda di una storia interiore irripetibile; ogni lettera è una prospettiva diversa su se stessi, sul mondo e sugli altri personaggi trascinati nella trama. Alec, glaciale professore che studia il fanatismo religioso; Ilana, fiammeggiante puttana moglie e madre; Manfred, troll affarista amico e nemico; Michel, scuro astuto e devoto; Boaz, biondo ribelle figlio-gigante, fusione di Gulliver e Gesù in versione hippie: ciascuno di loro dice la sua; ciascuno di loro affonda il braccio nella scatola nera e porta alla luce un pesce guizzante.
Molti sono i temi scandagliati dallo scrittore israeliano, con sensibilità: il tempo, la fede, la felicità, l’amore. Temi classici. Il tema più originale (e che appare con una certa frequenza), tuttavia, è quello che l’autore stesso chiama il gioco dell’ombra di un terzo nel letto. Un gioco tenero e macabro che impreziosisce con mistero i tessuti di una storia d’amore particolare, rendendola seducente anche da un punto di vista più generale. Ad esempio, Ilana scrive ad Alec: ‘Richiamavamo a noi un uomo che mi avesse per caso attirato. Tu lo impersonavi. A volte impersonavi tutti e due, te e l’altro. Il mio ruolo era quello di darmi alternatamente o contemporaneamente a tutti e due. La presenza di quelle ombre estranee ci trafiggeva di un piacere ferino, bruciante, che attingeva dal mio ventre e dal tuo petto urla, giuramenti, suppliche, spasmi quali non ho mai incontrato se non nel parto. O nella morte’.
Quella di Oz è un’archeologia narrante. Il collage di lettere che mette insieme contribuisce ad una ricostruzione ontologica del passato di cui i singoli personaggi sono gli attori, scrivendo se stessi. L’autore è soltanto il burattinaio che muove i fili, ma sono i burattini a parlare, acquisendo vita propria.
La scatola nera è dunque un libro da leggere adesso, nell’era della povera gente che comunica con cilestrini volatili virtuali, perché – pur non avendo alcuna istanza pedagogica – ha un forte potere deanestetizzante. Insegna come il racconto – anche solo interiore – di se stessi e dell’altro (di tutti coloro che occupano un posto rilevante nelle nostre esistenze), può infondere un’elettricità insperata a oggetti sepolti nel presente. Il presente è un cimitero di lampadine fulminate. Quelle lampadine ci sono ancora, sono sempre lì ma non si vedono. E il racconto di sé e degli altri – inteso come riesumazione del significato nel mondo attraverso il linguaggio – genera la possibilità di una visione che nessuna lente ipertecnologica potrà mai consentire.
L’Inesistente