Chuck Palahniuk – Soffocare

Inventio est excogitatio rerum verarum aut veri similium, quae causam probabilem reddant.
Marco Tullio Cicerone, De inventione, 86 a.C.

Alza un dito verso il soffitto coprendosi gli occhi con l’altra mano; poi lo fa precipitare verso il basso, verso l’elenco telefonico aperto sul tavolo. Ecco dove Victor Mancini sceglie di morire questa sera. La sua finzione non può ripetersi due volte nello stesso luogo. Lo show in cui simula il soffocamento non ammette repliche se non davanti a un pubblico sempre vergine, così ogni volta è costretto a programmare la sua morte in un posto diverso. Arrivato al ristorante, si siede e comincia a guardarsi attorno. A metà cena ingoierà un boccone troppo grosso, si alzerà barcollante, stringerà il collo paonazzo in attesa dell’inevitabile salvezza. Chi renderà schiavo della sua umiliazione, oggi? Poco importa chi sia, l’eroe. Certo, se gli capita ricco tanto meglio, ma i soldi non sono l’unico scopo della messinscena perché quella persona, da quel momento, diventerà per sempre dipendente da lui. Facendo sentire immortali gli altri, questi saranno pronti a fare salti mortali. Non gli manderanno solo biglietti d’auguri e assegni: lo adoreranno in quanto vulnerabile elargitore di scuse pronto all’uso, in quanto simbolo di una vittoria, di una proprietà virtuale, di un episodio che vale la buona azione di una vita.
L’obiettivo principale del sessodipendente Victor è creare dipendenza negli altri. Soffocare è l’immagine di un ribaltamento di prospettiva, che implica l’accettazione dell’inferiorità della propria condizione di soffocante in vista dell’acquisizione del dominio sul non soffocante. La prospettiva si ribalta secondo un passaggio che ricorda la dialettica schiavo/padrone descritta da Hegel nella sua storia romanzata dello Spirito. Victor, soffocando, diventa una leggenda privata sul conto del non soffocante che è intervenuto per salvarlo, diventa l’azione complicante del suo percorso esistenziale, l’evento da cui non si può prescindere per dare un senso a ciò che appartiene logicamente al dopo, ossia alla dimensione di ciò che è accaduto o che accadrà in seguito a quell’evento.
Il soffocante in questione trova la sua musa ispiratrice in una scimmia o, più precisamente, in una fotografia pubblicata su un sito porno che ritrae una scimmia scorticata dalla rogna (ma ancora viva) nell’atto di riempire di castagne il retto di un uomo piegato a novanta. L’uomo sorride, e in quel sorriso Victor scorge una dichiarazione di libertà, una possibilità di rivalsa nei confronti del mondo, attuabile dall’interno agendo nel mondo come ‘vittima aggressiva’. La scimmia-mondo mortifica l’uomo costringendolo a subire ciò che la sua stessa dipendenza lo porta a desiderare.
Si tratta però di una costrizione voluta da parte di chi subisce; chi subisce, in questo caso, decide di subire le conseguenze della dipendenza, consegnando la fenomenologia della sua scelta alla potenziale eternità di un’istantanea; l’uomo svela la propria malattia in un incontro paradossale con il mondo, a sua volta malato (la scimmia ha la rogna), e se inizialmente sembra costituire il bersaglio della derisione (piegato a novanta con le castagne nel didietro), alla fine è lui a deridere il mondo, fissando lo spettatore con una luce di trionfo negli occhi, perché dimostra che è il mondo (da cui l’uomo si lascia penetrare) il primo a essere infettato dalla dipendenza ed è quindi possibile non soffrire anche nella malattia (forse, soprattutto nella malattia): ‘La tortura è vera tortura e l’umiliazione vera umiliazione soltanto quando si sceglie di soffrire’.
La dipendenza emerge come fulcro tematico della narrazione, sviluppandosi in un arco temporale che idealmente si estende dal 1734 al 2556. Dipendenza dal sesso, ma non solo. Dipendenza dalla morte, dalla vita e dagli altri. Dipendenza come malattia, come paranoia, come follia. Dipendenza come illusione di libertà. Dipendenza, più in generale, da quelle idee e da quelle cose prodotte spontaneamente dall’inventio, la facoltà immaginativa grazie alla quale il soggetto scopre gli elementi e i nessi più adatti al suo discorso (qui inteso anche come pensiero, come capacità di interagire con il mondo e di costruire proprie mappe simboliche del mondo).
Il discorso di Victor dà l’impressione di raggiungere una specie di sintesi quando lui comincia a credere di essere la reincarnazione di Gesù Cristo. Non è più solo il soffocante che viene salvato: è colui che è in grado di salvare il non soffocante soffocando, attraverso il martirio di San Sé Stesso. Basta sesso: l’idea di essere il figlio di Dio offre lo spazio per una nuova dipendenza. Victor può diventare il contenitore di un qualsiasi significato fondamentale per chiunque. Può essere un ologramma salvifico che muta sembianza a seconda dello sguardo che gli viene rivolto. Può essere un figlio elevato all’ennesima potenza. L’ha convinto la dottoressa Paige Marshall, che ha letto il diario di sua madre, Ida Mancini, ricoverata in una clinica per sole donne affette dalla sindrome del jamais vu, ovvero da amnesia e altre disfunzioni croniche del sistema nervoso. Un braccialetto attiva dei dispositivi magnetici che blindano porte e finestre se ci si avvicina troppo, impedendo alle pazienti di darsi alla fuga. È fisicamente impossibile da togliere. La clinica la paga Victor con i soldi che riesce a mettere insieme grazie alle sue performance da soffocante e al misero stipendio maturato lavorando come servo irlandese nel 1753, presso un museo a cielo aperto affollato da galline storpie e mutilate che avrebbe l’intento di ricostruire lo stile di vita dell’America coloniale. In gioventù la madre – entrata in possesso di un’ambitissima reliquia: il prepuzio di Gesù Cristo – si sarebbe sollazzata facendo esperimenti sulla fertilità femminile. Il diario, probabilmente scritto in italiano (Victor non è in grado di leggerlo, la dottoressa Paige Marshall dice di essersi istruita in merito), dovrebbe contenere tutta la verità relativamente al passato di lui.
Durante la sua ultima visita alla madre (che rivela di non essere sua madre) Victor nota un braccialetto difficile da confondere con altri al polso della dottoressa Paige Marshall. Lei ammette di essere una paziente, ma anche un vero medico: una genetista inviata dal 2556 per farsi mettere incinta da un esemplare maschio del passato al fine di curare con le cellule staminali del feto un’epidemia del suo presente dove presto (nel giro di poche ore) sarebbe dovuta tornare, se pur a pancia vuota.
Ricevuta questa notizia, assistiamo a una rapidissima degenerazione dell’inventio di Victor, ormai in tilt. Portato in commissariato per via di un’accusa di stupro, cerca di soffocarsi sul serio con il tappo di una bottiglia di Ketchup e, conseguentemente alla contrazione provocatagli dai poliziotti per farglielo sputare, libera in un sol botto gli escrementi che aveva accumulato da tempo, comprese le palline di plastica rossa infilategli nel retto da un’ex compagna di giochi, causa dell’occlusione intestinale. Quelle palline sono il simbolo di un fallimento. Non hanno niente a che vedere con le castagne dell’uomo che si fa riempire dalla scimmia. Vince la malattia, o meglio, l’impossibilità della disintossicazione. Victor inizia il suo delirio. Ciò che racconta è ora estremamente surreale. Le frasi sono scollegate. Non si capisce cosa stia di fatto succedendo. Nelle ultime cinque pagine il discorso soffoca, precipitando nel nulla.
Soffocare è un romanzo che implode retoricamente su se stesso. Chuck Palahniuk scrive alternando capitoli in prima persona a capitoli in terza persona. In entrambi i casi si capisce che è Victor la voce narrante. Dunque dovrebbe essere lui il garante della veridicità del racconto. Eppure, nelle ultime cinque pagine, tutto viene messo in discussione, e il confine tra verità e finzione si cancella. Victor delira, il romanzo va in cortocircuito. Non è più chiaro, neanche lontanamente, cosa sia capitato davvero e cosa per finta. Nell’ultimo capitolo, attorno all’edificio di Danny – l’amico di Victor che da sessodipendente è diventato sassodipendente, convertendosi dalla masturbazione compulsiva alla raccolta quotidiana di pietre sparse ovunque per la costruzione di non si sa bene cosa – si radunano i personaggi. Tra di loro appare anche la dottoressa Paige Marshall, la quale confida a Victor: ‘Come vedi, sono ancora qui […] Perciò mi sa che sono pazza’. E viene da chiedersi: 1) come fa ad essere lì e ad avere ancora il braccialetto al polso?; 2) perché Victor non si è accorto della presenza del braccialetto quando lei, nuda sull’altare della chiesa, gli aveva chiesto di metterla incinta? 3) Victor ha vissuto tutto ciò che ci ha raccontato o l’ha semplicemente immaginato?
Per rispondere a queste domande è necessario ammettere o che Palahniuk ci abbia preso in giro, tirando via la fine perché si era stufato di scrivere, o che Victor ci abbia mentito. Una delle due, altrimenti i conti non tornano. Se l’autore ha voluto fare il furbo, non possiamo saperlo. È un’opzione da valutare, ma anche da scartare se non si vuole considerare Palahniuk uno sciatto o uno sprovveduto. Quello che sappiamo è che così, con queste incongruenze, il romanzo formalmente si affloscia, lo scheletro narrativo crolla, come crolla l’edificio di Danny nell’ultimo capitolo.
L’implosione finale del romanzo è un gioco d’artificio, un’operazione retorica con la quale Palahniuk ha voluto metterci in guardia: non Victor Mancini, ma l’inventio in sé è protagonista di Soffocare. E l’inventio, non bisogna scordarselo, è la capacità di trovare cose vere o simili al vero (quindi anche non del tutto vere o magari false) che siano utili al discorso. Perciò, i personaggi (dottoressa Paige Marshall inclusa) potrebbero essere estroflessioni dell’inventio di Victor, il quale potrebbe essere matto come un cavallo già in partenza; potrebbe averci raccontato tutto dal lettino di un ospedale psichiatrico, con un braccialetto blocca uscite al polso; potrebbe essere un cervello in una vasca da bagno (e un riferimento esplicito a questa eventualità si trova nel romanzo stesso). Insomma, Victor Mancini ci ha mentito.

L’Inesistente