Era scesa dal suo yacht come dallo scheletro di una balena mezza marcia sulla rena, con una mano orizzontale sulla testa, un gomitolo organizzato di stopposissime ciocche brizzolate raccolte dietro la nuca ambrata in un labirinto di spillette, per trattenere una forte emicrania o evitare che un pensiero le volasse via dal cranio oscurando il cielo, e l’altra mano stringeva al petto un quaderno rosso a quadretti da prima elementare con un’etichetta bianca con sopra scritto qualcosa, un quaderno che avrebbe verosimilmente riempito di appunti durante quelle ore d’ispezione ma, sebbene l’arrivo di un supervisore fosse noto, il team di giovani menti maschie e brufolose selezionate con cura dalla CIA nei più rinomati rifugi subatomici superstiti per studiare le radiazioni e le sue conseguenze sulla flora e la fauna dell’isola a 54 giorni dal bombardamento, non era persuaso delle competenze di quella gracilina donna rompiballe, che sfoggiava una grossolana tunica navajo anni Settanta e una borsa da caccia tutta sfilacciata e pretendeva complimenti sinceramente virili, asciugandoli con domande fuori luogo e mettendosi a scrivere ancora prima delle loro risposte, fermandosi a tratti per sillabare fra sé e sé, o per sospirare in posa ieratica, o per scuotere la testa in segno di non si sa bene cosa, o per chiudere gli occhi dietro i suoi occhiali da sole azzurri e romboidali, e pertanto nessuno si sorprese quando i più bulli cominciarono a chiamarla ‘Nonna di Puffetta’.
Il primo a farsi avanti, o meglio, l’unico a non tirarsi indietro, fu un mirabile ragazzo in pantaloncini neri della Nike, che oltre a essere un ex calciatore biondo con gli ormoni a palla, si era laureato cum laude in ingegneria dei pistilli, ed era particolarmente esperto in fecondazione vegetale – assistita? – chiese la Nonna di Puffetta senza distogliere lo sguardo dal quaderno su cui forse stava scarabocchiando un pistillo – certo! – esclamò lui, dando continui pizzicotti scattosi al naso e profondendosi in spiegazioni sempre più esagitate sui risultati che gli esperimenti stavano dando a livello isomerico – i-so-me-ri-co? – fece lei – esatto, con una sola emme, isomerico! – ripeté lui entusiasta, elencando tutte le specie di piante rimaste al mondo che aveva isolato, descrivendo in un volo pindarico tutte le grazie che un domani l’intero globo terraqueo avrebbe potuto ricevere rimpolpandosi di verde, ma servivano ancora esperimenti e strumenti e calcoli, tanti calcoli e – cos’è quello, un tatuaggio? ha una forma così familiare – lo interruppe lei indicando un faro disegnato sul polpaccio del ragazzo, che con narici rosseggianti le descrisse l’umile villaggio di pescatori e le origini dei suoi genitori – molto poveri in realtà! – e le raccontò del faro, perché una notte aveva rubato le chiavi al guardiano e aveva perso la verginità, lui e la sua fidanzatina, proprio quassù, disse, e tirò su col naso e si toccò il cavo popliteo, sulla cui superficie una finestra pareva essersi illuminata al suo tocco, mostrando due sagomine e il loro amplesso riversarsi sulle onde – e il numero romano, il sette lì vicino, cosa significa per te? – aveva raggiunto un accordo con la società che l’aveva ingaggiato, spiegò lui, per cui se non poteva avere il numero sette sulla maglia, gli avrebbero pagato un tatuatore per metterglielo sulla pelle – belle gambe, muscolose, peccato per il tuo infortunio – l’ex calciatore rimase un attimo interdetto, come faceva a sapere del suo infortunio? Si era rotto il crociato durante la colluttazione successiva all’amplesso, infatti mentre lui eiaculava dentro di lei in cima al faro il guardiano li aveva scoperti, e gli avevano detto che era un violento, che non c’era da fidarsi, così il ragazzo l’aveva ucciso a calci in faccia e l’aveva fatto a pezzi con un coltellino svizzero, buttandolo poi a mare dall’alto pezzo dopo pezzo, ma ormai la cicatrice sul ginocchio non era più larga di uno spillo, lui aveva cambiato continente, si era iscritto all’università, e non aveva più rivisto la fidanzatina, faceva parte del patto, non avrebbero detto nulla l’uno dell’altro, non si sarebbero più parlati, mai avevano pianto così tanto – non sarà mica CR7 il tuo idolo per caso? – e lui, pizzicandosi il naso furioso – no, Nonna di Puffetta, cosa dice, il mio mito è e sarà sempre Marco Van Basten! – e lei, inclinata la testa di 45°, per la prima volta lo guardò negli occhi, in quelle dilatatissime pupille da cocainomane, e gli disse che sarebbe stato bello dare una sbirciatina ai suoi pistilli nella serra.
Alcuni scienziati sghignazzavano, altri avevano perso interesse, altri ancora scortarono l’ex calciatore e la Nonna di Puffetta alla serra, che si ergeva come un colossale alveare di vetro a picco sul mare, quindi lasciarono che sbrigassero la faccenda dei pistilli da soli.
Lui la precedette e, circondato dai pistilli, blaterò tutto lo scibile sulle diverse tipologie di fecondazione vegetale assistita, algoritmi e formule arzigogolate, nel tentativo di concentrarsi sul complicato, di scacciare quelle immagini semplici rinverdite dal racconto del faro, i dettagli di quell’infortunio dannato che dieci anni prima gli aveva fatto saltare ginocchio, amore e sonno degli onesti in un colpo solo, e che ora tornavano marchiati a fuoco sulla parete interna della scatola cranica, tanto che gli venne da tenere una mano orizzontale sulla testa, ma lei aveva smesso di prendere appunti, era rimasta all’inizio del corridoio e gli puntava una carabina all’altezza della candida nuca.
Lui si girò al rumore del caricatore, strofinandosi il naso con l’avambraccio, e restarono a guardarsi qualche istante, mentre le onde riflesse dai vetri del soffitto della serra riempivano lo spazio tra di loro come una rarefatta nebbia scura, quindi lei disse che finalmente l’aveva trovato, aveva trovato l’assassino di suo marito e adesso, se non gli dispiaceva, dopo dieci anni di ricerche e di veglia disperata, sarebbe tornata sullo yacht a farsi un sonnellino, e uscì dalla serra lasciando sul tavolo accanto all’ingresso la carabina e il quaderno rosso, sulla cui etichetta bianca, scritte con pennarello indelebile a punta grossa, avvicinandosi lui lesse due parole: VAN BASTEN.
L’Inesistente