Via dal vento

Alle cinque di mattina la luce del porto era già così spessa da trapassare le lenti scure anti UVA come un vento solare preapocalittico, insinuandosi sotto le palpebre in un velo lanuginoso dalla consistenza di uno yogurt all’arancia ormai rancido di settimane e zampillante di batteri.

In quella luce, sugli scogli circondati da un piattissimo blu marino, adolescenti seminudi e biondi e ancora ubriachi, indugiavano su scogli piramidali chiari e accuratamente levigati in chiassose elucubrazioni filosofiche che disintegravano le grida dei gabbiani nel vento e arrivavano a strusciarsi sui timpani come rapide zaffate di Negroni.

Quella notte, sul treno che li avrebbe condotti al porto, lei aveva ricevuto una notizia, forse non bella, almeno così lui pensava, vedendola viola arroventata nella semiombra passeggiare a scatti nel corridoio o cambiare carrozza perché forse di là prendeva meglio, perché forse la vicinanza di lui, del suo collega, rappresentava un ostacolo sociale, o linguistico, però alla fine era tornata al suo posto, perché stavano per arrivare e doveva in qualche modo ricomporsi e, così come aveva lasciato intendere la voce registrata a singhiozzo del capotreno, non dimenticare i suoi affetti personali, almeno gli affetti palpabili nella penombra della carrozza 54, ma era come se della borsa di Louis Vuitton, regalo delle amiche per la sua medaglia di bronzo nei campionati regionali di nuoto di fondo, e dei costosissimi cosmetici nonché dei tacchi a spillo che portava sempre con sé – non si sa mai! – non le importasse più di tanto.

Senza saper esattamente cosa dire, la seguì nella luce del porto fino a uno Starbucks, dove lei, incenerendo con un rapidissimo sguardo a monofessura ciclopica il suo iPhone con cover di Hello Kitty che non smetteva di squillare, ordinò un doppio espresso e un muffin al cioccolato, perché anche nelle situazioni più drammatiche bisogna fare colazione.

Lei era una ragazza dall’aspetto zingaresco, ma nonostante il tatuaggio di una piccola nuvola con fulmine sul polpaccio sinistro fosse sbiadito, non avrebbe mai dimenticato i suoi affetti personali sul treno di qualsiasi galassia, né si sarebbe fatta prestare il fazzoletto come quella sprovveduta di Rossella O’Hara in Via col vento, perché lei il vento ce l’aveva nel petto, nelle sue piccole mani screpolate e nella sua attitudine da rospo centenario in fase di estinzione che non ha tempo da perdere e che, per salvare il suo tempo, può squarciarti a metà con un sorriso.

Lui, dopo aver comunicato a gesti al cameriere che avrebbe preso lo stesso, cercò di perforare la membrana radioattiva di yogurt rancido all’arancia formatasi tra mondo e pupilla, per captare la gravità della notizia dai movimenti della collega che, sedendole di fronte di tre quarti, lo sguardo proiettato oltre gli adolescenti seminudi e biondi e ancora ubriachi, i folti capelli arruffati dalle zaffate di Negroni che le frustavano i denti bianchissimi appena visibili, non occultò una lacrima spiaccicata dal vento, una linea tracciata sulla guancia dalla schiuma di quel mare così fermo, ma in un momento antecedente a quello, in una dimensione affettiva di cui Clark Gable non avrebbe mai potuto far parte, una zona tabù destinata a rimanere tale per sempre.

Senza toccare niente di quello che aveva ordinato, lei si alzò, e lui, con il muffin al cioccolato allappato in bocca e filamenti di double espresso che cominciavano a corrodergli lo stomaco, l’osservò camminare verso il molo che separava l’agglomerato di scogli piramidali da una caravella dalle vele scorticate apparsa sulla sinistra, mentre si legava i capelli con un elastico, lentamente, ignorando gli adolescenti seminudi e biondi e ancora ubriachi che ora davano le spalle immobili verso l’orizzonte, i gabbiani sospesi a mezz’aria e soprattutto il vento, sempre più forte, ma ormai inodore.

Quando il display dell’iPhone lasciato sul tavolino accanto alla borsa si accese e ricominciò a squillare, lei si era già tuffata, sparendo in quel piattissimo blu marino come un fulmine in una piccola nuvola.

L’Inesistente
Credits: Aleksandr Deineka, Futuri aviatori, 1938