Il signore del tavolo 54 è vestito d’azzurro, un gessato volutamente troppo corto, così da mettere in mostra i nuovi mocassini di Ferragamo e, soprattutto, le tanto ciccione quanto seducenti caviglie meticolosamente smerigliate, mentre consulta la carta dei dessert gluten free come se passasse in rassegna una collezione di rarissime farfalle e le volesse pappare tutte, con garbo, ma tutte, senza lasciarne il più piccolo brano alla mercé di altre entità del branco in sosta al ristorante, eccezion fatta per il suo cagnolino, uno Shiba-inu maschio purosangue acquistato con Amazon Prime e arrivato da Tokyo una manciata di ore prima direttamente alla sua stanza d’albergo, almeno, così dice al cameriere.
– Non è una meraviglia?
– Amorevole, signore.
– Accarezzalo, dai!
– Ahia!
– Ti ha morso?
– No no, non si preoccupi!
– Cane cattivo, cattivo, he he!
– Abbiamo anche dei dolci pet friendly, dove c’è l’emoticon a forma di zampetta.
– Ottimo, allora prendiamo due torte sefardite con mandorle.
– Gradite una guarnizione con arance rosse di Sicilia?
– Sì, purché siano bio e senza lattosio!
– Certo, noi serviamo tutto senza glutine, senza lattosio e senza lievito.
– Direi che siamo nel posto giusto, allora!
– Abbiamo un punteggio di 4.5 su TripAdvisor.
– Wow!
– E questa corte rinascimentale è stata disegnata dalla Ferragni a mano libera.
– Ma dai?
– Arrivo subito con le vostre torte sefardite, signore.
Il cameriere aggiorna la comanda infilzata nel sughero della cucina e, in attesa dei dessert, si fionda sulla tonnellata di stoviglie semisudicie da smaltire entro l’alba. Davanti a lui giganteggia una plasticosa vasca zeppa di coltelli, acqua bollente e aceto, da asciugare con un tovagliolo forellato che sembra la benda appartenuta a un faraone di bassa lega mummificato alla svelta, trafugata da una supertirchia lavandaia tombarola, per poi essere tramandata di nipotina in nipotina senza che nessuno si curasse mai di rammendarla.
In pratica, quelle lame vanno asciugate a mani nude, e il cameriere si accorge che il cagnolino ha affondato bene i denti nel suo metacarpo sinistro, che sgocciola rosso; decide quindi di sacrificare la benda forellata per tamponare l’emorragia e strizza ritmicamente i polmoni per mantenere la schiena dritta, i glutei elegantemente contratti, e per scacciare il panico da astinenza da Valium, che già incombe facendolo arrovellare su pensieri tipo che quei polmoni che sta strizzando, i suoi polmoni, finiranno nella ciotola di quello Shiba-inu, o magari in qualche vasetto dalla faccia grottesca dell’Happy Meal che Anubi si mangia col cucchiaino prima di traghettare le anime all’inferno.
Più il cameriere si specchia su quelle lame, più teme che le perle di sudore colino dalla fronte sull’acciaio inox delle posate come microscopici magneti maledetti, più sente l’aceto insufflarsi nella peluria mannara dei suoi avambracci e il papillon stringersi attorno alla trachea e, per qualche strana legge della metafisica, sente che mancherebbe solo un aculeo ex machina dedito all’impiccagione rituale di camerieri frustrati per completare il teorema e fare felici tutti i canidi dell’aldilà.
Ormai esangue, gli intimano di nascondere la mano da qualche parte e di sparecchiare il 54. Insieme alla ricevuta trova un biglietto sporco di polpa d’arancia con scritto il nome di un hotel e due Euro e cinquanta di mancia.
L’Inesistente
Credits: Francis Bacon, Dog, 1952