Il ponte di legno era circondato da stormi dipiccoli uccelli neri e bianchi galleggianti sulla spiaggia: un semicerchio di coralli morti che spuntavano dalla terra come una scintillante distesa di denti spezzati. Gli uccelli emettevano una serie di versi, ma non si capiva da dove provenisse quel rumore; non si capiva se stessero gridando ognuno per conto proprio, insieme, o uno alla volta; magari solo quelli bianchi o solo quelli neri.
Quell’unica voce sospesa nell’aria avrebbe anche potuto essere una trovata robotica del resort per ammaliare i clienti, o un’allucinazione acustica dovuta al sole troppo grande, che andava strappandosi in schizzi rossi sulla sommità delle palme. La brezza dell’oceano era più forte dei piccoli uccelli neri e bianchi, e interrompeva il loro volo: le ali si muovevano, ma gli uccelli no; ed erano così vicini e li sentivi così tuoi, che avresti potuto afferrarli uno per uno e riportarli a casa, come relitti di un complesso di affetti andato in frantumi, brandelli del tuo cervello incastonati in un cielo a portata di mano.
Benvenuto in paradiso! Abbasso la telecamera: una ragazza in uniforme con i capelli biondi raccolti in una crocchia perfettamente sferica, mi rivolge un sorriso strappazigomi, e con un gesto automatico mi invita a seguirla verso il bar. Camminando vedo un tatuaggio sulla sua caviglia sinistra: tre triangoli equilateri che si intersecano sulle rispettive bisettrici. Lei deve essere il videomaker, suppongo, mi dispiace per il ritardo. Nessun problema, cercherò di montare il drone in fretta; quanto tempo abbiamo prima che faccia buio? Ci sediamo su delle poltroncine zebrate e lei mi porge un welcome drink accavallando le gambe: è così importante per lei il tempo, vero? Guardo la sua caviglia: all’interno di ciascun triangolo è disegnato un numero: 6, 3 e 1. Lei se ne accorge, il sorriso si allenta, i suoi occhi si tingono di ombra per un istante, poi inclina la testa e mi dice: sa, sull’isola il tempo a volte si ferma, tanto che sembra non esserci più. Tiro su dalla cannuccia: immagino, qui si ha la sensazione di essere fuori dal mondo, non ricordo quasi più quando sono arrivato e devono essere passati a mala pena dieci minuti! L’ombra nei suoi occhi si annacqua in un fiotto luminoso.
Ecco, questo è l’itinerario che ho preparato per il suo shooting, fa lei porgendomi un foglio completamente bianco attaccato a una cartellina nera. Ho solo bisogno di una firma qui in fondo, così posso accompagnarla al bunker a montare il drone: sì, è così che chiamiamo lo spazio dove si trasformano le cose sull’isola, politica aziendale, lei capisce? Certo, capisco. Metto giù il bicchiere e allungo la mano verso l’affilatissimo lapis rosso che lei, in attesa, mi porge a mezz’aria. Le nostre dita si sfiorano; in quel contatto si concentra il verso di tutti i piccoli uccelli neri e bianchi galleggianti sulla spiaggia. Lei sbatte le palpebre: i suoi occhi sono così vicini, li sento così miei, vorrei afferrarli uno per uno e riportarli a casa. Nelle iridi turchesi grumi di ombra si mescolano al barlume di speranza che prima la mia battuta aveva acceso.
Firmo il foglio completamente bianco e le restituisco la cartelletta, ma mi prendo il lapis. Bene, le faccio strada! Passiamo davanti alla reception, e tre ragazze bionde con crocchia perfettamente sferica alzano la testa dai loro PC, rivolgendomi lo stesso sorriso strappazigomi: benvenuto in paradiso! Attraversiamo un viottolo di altissime palme da cocco e arriviamo a una porta di metallo, la 631. Al centro del bunker, su un ampio tavolo di vetro convesso, che occupa quasi tutto lo spazio, si sovrappongono plastici di resort: altri paradisi da traslare su isole moltiplicabili all’infinito. Lei resta in piedi in un angolo con le braccia dietro la schiena. Mi osserva mentre monto il drone sotto una lampadina che pende dall’alto nuda e intermittente. Scanso da una parte la catasta di plastici, tiro fuori una ruota di bicicletta dalla borsa, e la posiziono in orizzontale. Attacco la telecamera nel punto da dove si innervano i raggi della ruota, e tre micromotori, a formare un triangolo ideale. Mi piacerebbe assistere allo shooting, immagino sia un’esperienza indimenticabile, crede sia possibile?
La fisso con un cavo in mano. Penso che uno strappo alla regola si possa fare, dico elargendole un occhiolino. Grazie, non sa da quanto tempo aspettavo questo momento! Si avvicina e mi posa una mano sulla spalla. Finisco di intrecciare i cavi, e quando il drone è pronto, lei mi indica un’altra porta che si apre sul retro dell’isola. Non ci sono più palme, solo sabbia, una scintillante distesa di denti spezzati. Sullo sfondo, l’enorme circonferenza del sole è coronata da stormi di piccoli uccelli neri e bianchi che sbattono le ali sospesi nell’aria. Lei mi sta accanto, con le braccia dietro la schiena; il vento ha sciolto la sua crocchia perfettamente sferica; anche l’ombra si è sciolta, come mascara attorno ai suoi occhi bagnati, nei quali si riflette lo spettro rossastro del sole. La sento così vicina, così mia. Vorrei incastonarla nel mio cielo. Attivo il bluetooth, il drone si mette a ronzare. Ti prego, portami via da qui! La cingo da dietro, la bacio sull’orecchio: mi dispiace per il ritardo, non sono qui per salvarti! Sfilo il lapis dalla tasca posteriore dei jeans e glielo conficco nel collo tre volte; lei comincia a dissanguarsi appoggiata al mio petto. La ruota di bicicletta vola verso l’alba. Almeno, tutto sarà filmato.
L’Inesistente
Credits: Alfred Hitchcock, The Birds, 1963