Crimes of the Future: La ribellione nel corpo alla fine dell’umanità.

I morti giungono correndo di sbieco con in mano una pubblicità del dentifricio.

Charles Bukowski

L’arca di Noè è andata alla deriva, si è sgretolata sull’orizzonte della speranza come la pubblicità di un dentifricio. Tutte le specie animali si sono estinte, forse anche l’umanità. Questa è la nostra prima scena: sullo sfondo di una nave sfracellata, un bambino mangiaplastica setaccia con un cucchiaio le granaglie portate dal mare; non è il figlio di dio, bensì il frutto di un esperimento estremo, un miracolo da laboratorio per sopravvivere in un mondo divenuto il relitto di se stesso. Lo stomaco di questo bambino è in grado di digerire la plastica: il padre, leader dei ribelli mangiaplastica, si è sottoposto a un sofisticato intervento chirurgico, è riuscito ad avviare una florida industria clandestina di barrette viola fatte con materiali di scarto, e ha trasmesso geneticamente la sua rivoluzionaria anatomia interiore al figlio, ma lui (testardo!) disobbedisce alla mamma che dalla terrazza gli intima di non mangiare niente di ciò che trova sulla spiaggia, e dopo aver usato lo spazzolino senza dentifricio, morso dalla fame, si rannicchia sotto al lavandino per azzannare il cestino di plastica del bagno, sbavando spuma bianca di acido solforico. In questo futuro quasi tutti hanno un disturbo alimentare cronico, tanto che c’è chi ha disimparato a nutrirsi in autonomia e deve sedersi su dei grotteschi vertebroseggioloni semoventi per farsi imboccare. Evolversi, assecondare il corpo, lasciare che il corpo trovi metodi alternativi per alimentarsi, potrebbe rivelarsi una traccia da seguire per riconquistare la speranza perduta.

La mamma, però, indispettita e forse anche un po’ esaurita, soffoca il bambino con un cuscino. Perché? Che cosa rappresenta questo premeditato omicidio di Isacco? Una ‘traccia’, un qualsiasi cestino di plastica sbocconcellato, il graffito sulla parete di un edificio in decomposizione (gli edifici di Crimes of the Future sono pieni di graffiti), potrebbe non bastare a ricostruire da zero un linguaggio, un sistema di valori in grado di registrare e riprodurre significato, perché se l’uomo decide di evolversi nella direzione che la natura pare suggerire (la Terra è diventata una discarica, allora adattiamo il nostro corpo, modificandolo nel suo apparato non più funzionale, in questo caso il digerente, per digerire i rifiuti), magari quel suggerimento è soltanto la conseguenza di un comportamento errato, di un abuso storico reiterato nei confronti della natura da parte dell’uomo, è il messaggio sviante di un angelo caduto truccato da bravo ragazzo. All’uomo è sfuggito di mano il bisturi della tecnica e perciò mamma-natura è andata segmentandosi in brandelli sempre più amorfi, denaturandosi, offrendo ‘tracce’ del suo essere sempre più indispettite, ambigue, se non maligne o addirittura matrigne. L’uomo ha devastato chirurgicamente il mondo nel corso della sua storia, e in un futuro che è già presente la natura si ‘ribella’. La storia dell’uomo, dal punto di vista ambientale, è una storia di distruzione non creatrice, in cui l’uomo si è illuso di poter creare a capriccio, senza conseguenze, a partire dalla manipolazione dei corpi, nutrendosi di tutto ciò che riusciva ad afferrare, un dono o un prodotto, per trasformarlo in qualcosa di utilizzabile, di antropocentricamente significativo: pane e vino offerti in sacrificio per voi, mangiatene e bevetene tutti; ora potete andare, avete una ragione sufficiente o rivelata per uccidere, per sentirvi in colpa, per pregare, per attendere con la vostra anima la salvezza nel tempo.

Alla fine di questa storia, David Cronenberg evoca un mondo horror e sensuale, in cui l’uomo cerca di rispondere alla ribellione nel suo corpo, mutandola in significato attraverso l’arte: così l’uomo, a sua volta, si ribella alla natura. È un mondo horror perché fa paura un mondo senza speranza dominato da chirurghi-performer (non troppo dissimili dagli attuali influencer) che plasmano la realtà tagliandosi il corpo; è un mondo sensuale perché è proprio attraverso il corpo e l’estetica intesa come percezione sensibile (gr. aisthánomai=percepire attraverso i sensi) che il regista medita sul significato dell’arte e quindi sulla possibilità di un riscatto dell’uomo nei confronti della tecnica.

Secondo Epicuro tutto è materia e noi conosciamo la verità della materia attraverso la percezione sensibile. Là dove cessa la sensazione, cessa anche la vita e a noi subentra la morte, perciò quando ci siamo noi la morte non c’è e viceversa, quindi non dobbiamo temerla. Inoltre, possiamo raggiungere la felicità attraverso un calcolo dei piaceri, scegliendo, in altri termini, tra tutti i piaceri possibili, il piacere che soddisfa al massimo il nostro corpo con il minimo turbamento, poiché il piacere è assenza di dolore (gr. aponía). Quindi, se ad esempio abbiamo sete, se il nostro corpo ci spinge a colmare questa mancanza, l’epicureo sceglierà di bere la cosa più semplice, un bicchiere d’acqua e non un margarita. Perché? Perché, se l’acqua soddisfa puntualmente la mancanza del piacere dell’assenza di sete, il margarita bordato di sale magari ci farà venire più sete o ci metterà appetito, innescando una dinamica di mancanze da soddisfare che, alla ricerca di un piacere sempre maggiore, mescolerà il rischio di una mancanza altrettanto maggiore, e dunque il rischio di un turbamento maggiore. Se però ci grattiamo la puntura di una zanzara, proviamo piacere o dolore? È qualcosa che possiamo ancora definire in termini di dolore/assenza di dolore o mancanza/soddisfacimento della mancanza? Se la sensazione parte dal corpo, che cosa accadrebbe se il corpo mutasse dall’interno, se al suo interno proliferassero dei neo-organi dalla funzione non precisata, frutto della ribellione della natura e tali da spostare i limiti stessi della percezione sensibile, i confini del piacere e del dolore, amplificando una sorta di effetto puntura di zanzara?

Questo è il problema che Cronenberg pone in primo piano come significante del suo film. Il protagonista Saul Tenser (soul=anima + tense=tensione/tempo > anima tesa nel tempo?) è Viggo Mortensen incappucciato di nero come la morte che gioca a scacchi con il cavaliere nel Settimo Sigillo di Ingmar Bergman. Appare spesso a lato della scena come una celebrità in agguato nell’ombra, un po’ eccitata e un po’ annoiata. Saul è un body performer sotto copertura, il che di per sé è una contraddizione abbastanza ridicola: Saul vuole esibire i neo-organi che produce dentro di sé nel sonno, ma non può farlo troppo apertamente perché è un’attività artistica ai limiti della legalità. Saul dorme in un vertebroletto con delle zampette-liane che si appiccicano ai centri del dolore e si fa tagliare (gr. témno, ‘io taglio’ > tempio=spazio sacro ritagliato per la divinità) con dei bisturi ossuti azionati a distanza dal movimento delle dita su un joystick a forma di cervello dalla sua partner in crime, Caprice. Altro nome parlante? Si tratta di un termine usato da Giorgio Vasari, padre della storiografia artistica, che, ad esempio, connota negativamente la passione smodata del ‘capricciosissimo’ Paolo Uccello per il disegno degli animali, in particolare dei volatili, e per lo studio della prospettiva, capriccio che l’avrebbe distratto dal dipingere l’idea del bello calando l’ideale nel reale, come invece avrebbero fatto Raffaello e Michelangelo.

Caprice apre il corpo di Saul su di un vertrebropalcoscenico operatorio, dove si ostenta il mistero della bellezza interiore del neo-organo subconsciamente partorito dall’anima di Saul, mentre l’intera performance viene registrata da fotocamere anulari ed esaltato dalla scritta cubitale BODY IS REALITY sullo schermo di un televisore vintage. Il tema figurativo della vertebra richiama proprio l’idea epicurea del conoscere attraverso il corpo: attraverso i nervi e il midollo spinale passano le informazioni che determinano il piacere o il dolore, e quindi la verità. Anche per Schopenhauer si conosce attraverso il corpo, perché la necessità di soddisfare un bisogno, il desiderio di qualcosa che manca, la tensione che ci porta e bere un bicchiere d’acqua (o un margarita) per dissetarci e che poi, dopo la gioia puntiforme della non-più-sete, ci fa riscivolare nel senso di mancanza e quindi nel dolore, è la stessa tensione che spiega tutti i fenomeni naturali:

La tensione della materia può essere soltanto contenuta, mai realizzata o soddisfatta. Lo stesso avviene per tutte le manifestazioni della volontà; ogni fine raggiunto è l’inizio di un nuovo percorso, e così all’infinito. La pianta espande le proprie manifestazioni dal germoglio allo stelo, alla foglia, al fiore, al frutto, che a propria volta è l’inizio di un nuovo germoglio, di un nuovo individuo […] La stessa cosa si manifesta incessantemente negli sforzi e nei desideri umani, la cui realizzazione balena sempre davanti a noi come il fine ultimo della nostra volontà; appena raggiunti non li riconosciamo più, in poco tempo li dimentichiamo come anticaglia, e invero, pur non ammettendolo, li accantoniamo come illusioni svanite.

Arthur Schopenhauer

Allora a cosa si ribella Saul, registrando, tatuando la ribellione nel corpo e trasformandola attraverso l’arte? A cosa ci ribelliamo creando? Nel mondo-che-non-è-più di Cronenberg l’arte è l’unica forma di conoscenza per un corpo che muta costantemente. Grazie alla body art apriamo delle brecce per la manifestazione della nostra umanità, il cui senso altrimenti non può che sfuggirci. Per questo la chirurgia è come un atto sessuale, è una sottrazione conscia del nostro poter essere all’insensatezza dell’esistenza che ci rende schiavi dei nostri desideri, fisici e metafisici, perché è nel desiderio, nella Sehensucht, nella tensione che proietta davanti noi la visione quello che non è o che non è più, che ci illudiamo di essere liberi. La libertà autentica è ciò che riusciamo a strapparci dall’interno e a performare all’esterno nella trasformazione artistica. Saul Tenser, l’anima-tesa-nel-tempo, prova a sottrarsi alla tensione della volontà aprendosi ai significati possibili di un’operazione artistica che è contemplazione disinteressata, adorante, estatica, non del desiderio, ma del mistero che si cela dietro al desiderio. L’arte è un atto di volontà che si sottrae alla volontà nell’esaltazione della carne ‘aperta’, spettacolarizzata.

‘La creazione della bellezza interiore non è mai un incidente’, si dice nel film. Infatti, se Saul crea dall’interno, un performer ballerino che si cuce le palpebre e le labbra impiantandosi sul corpo delle orecchie extra per amplificare l’effetto del suono, non crea un bel niente: le orecchie sono un orpello, sono solo scenografiche. L’arte di Crimes of the Future non è decorazione, non è imitazione né catarsi, ma manipolazione consapevole del proprio subconscio. L’arte è criminale, perché registra una traccia di ribellione (la ribellione della natura nel corpo, la ‘traccia’ che ci fa evolvere, che ci salva o che ci distrugge) e la attua nella teatralizzazione della storia, sul palcoscenico del mondo in cui l’uomo – inteso heideggerianamente come Esser-ci, e quindi strutturalmente portato al transumano, a trascendersi, ad aprirsi nell’attesa e nella progettazione di sé, per sfuggire alla tentazione del nulla, o perché attratto dal mistero della bellezza – manipola il significato delle res (l’insieme delle cose che definiscono la realtà), quelle cose che può simbolicamente ‘gettare insieme’ (gr. symbállo), trasformando incessantemente l’umano in qualcos’altro per cercare di comprendere se stesso in quanto umano a partire dal corpo.

Attenzione, non è così semplice: Cronenberg ammalia visivamente, intessendo un significante ricco di suggestioni filosofiche, ma dal punto di vista del significato non dà una risposta netta. Quando nella scena culminante viene fatta l’autopsia al bambino mangiaplastica (e stavolta il joystick passa nelle mani di Saul), l’interno del ventre di quest’ultimo non rivela nessun mistero, anzi, la pancia è piena di tumori, organi fittizi, ‘capricciosamente’ plasmati dall’immaginazione di Saul, per giunta tatuati con una certa trivialità: leggiamo MOTHER (la mamma assassina!), vediamo figure elementari, goffe, nessuna epifania della salvezza, lo show è un fiasco totale.

In una delle prime scene Saul aveva detto scherzando a Caprice… ‘come procede l’opera d’arte?’… il neo-organo ha una superficie liscia… ‘difficile essere precisi con l’inchiostro’… ‘[invece della forma dell’organo sull’organo] perché non fare qualcosa che sembri davvero un tatuaggio… un cuore, un ancora… MAMMA’… ‘sarebbe divertente’. Ridono. Viene da pensare che Saul avrebbe potuto concentrarsi di più durante l’autopsia, strofinare meglio i suoi polpastrelli d’artista sul cervello-joystick, se avesse davvero voluto rivelare qualcosa di portentoso all’umanità.

I neo-organi devono essere ‘registrati’, tatuandoci sopra la loro forma. Saul ha il suo portfolio in un ufficio squinternato dove incontra due ‘capricciosi’ scienziati-burocrati, sedotti dalla sua fama, dal suo comportarsi come pubblico ricettacolo di un presunto mistero salvifico, proibito, meraviglioso, che tuttavia potrebbe essere solo una fantasia, un mostro generato dal sonno della ragione di quel fenomeno da baraccone che è Saul. La stessa Caprice, attratta da una speciale ‘cerniera’ tagliata in orizzontale sul ventre di Saul, invece della classica fellatio, si china a bacia l’apertura sulla di lui interiorità, perché Saul, in preda a un ‘capriccio’ narcisistico, si è iscritto a un concorso di bellezza interiore. Quando Lei lo bacia Lui dice: ‘attenta a non far uscire niente’. Perché Saul adesso è così preoccupato di condividere la sua bellezza interiore?

C’è il rischio che l’arte non sia arte, ma un imbroglio, perché ‘capricciosa’: troppo cerebrale o troppo impulsiva, troppo mimetica o troppo distante dalla natura. Questo rischio c’è perché è la nostra anima-tesa-nel-tempo a scoprire un volto ‘capriccioso’ e fondamentalmente egoista: Saul Tenser, con una nave arrugginita sullo sfondo (che richiama il naufragio della scena iniziale), confessa che lui si taglia non per sciorinare all’umanità chissà quale mistero su se stessa, ma perché, semplicemente, non gli piace ciò che succede nel suo corpo. Stop, nessun segreto metafisico da rivelare attraverso l’arte, nessun significato nascosto dall’involucro del significante. In questo modo Cronenberg, pur affermando lo straordinario potere e il fascino e l’importanza dell’arte, ci riporta alla concretezza del nostro essere ‘animali malaticci’, per usare un’espressione di Schopenhauer, animali consapevoli della propria condizione di schiavitù nei confronti della volontà che indefessamente vuole; schiavi che possono ribellarsi e creare senso, cercare un linguaggio nella bellezza, o inventare infiniti mondi a partire da una qualsiasi ‘traccia’ materiale; schiavi che però rischiano di esaltarsi troppo, di diventare ‘capricciosi’, di perdersi in una bellezza vuota, in un’arte che non è arte, perché il confine tra piacere e dolore, tra verità e finzione, non smette mai di spostarsi.

Cronenberg mette in scena il rapporto problematico tra noi, il nostro corpo e l’ambiente con uno stile vasarianamente ‘capriccioso’, azzardando scelte estreme molto efficaci dal punto di vista concettuale e cinematografico. Il dualismo (forse irrisolvibile) tra cosa estesa e pensata (o pensante), il rapporto tra soggetto e oggetto, tra identità e alterità, tra corpo e conoscenza, tra realtà inconscia (immaginata) e realtà conscia (consapevolmente percepita, agita o subita come atto di volontà) sono temi accennati dal regista con ironico pessimismo e grande forza evocativa nella visione di un futuro che è un mondo-non-più-mondo, in cui il vero crimine non è il peccato originale, o il peccato di aver creduto nel peccato, ma è il presente in cui ‘la chirurgia è il nuovo sesso’, tutto è ridotto a corpo osceno da esibire e sferruzzare nel tentativo tanto bieco quanto tonto di ricavarne una qualche seducente epifania, là dove, con una nave sfracellata sullo sfondo, l’uomo torna alla sua prima scena, incarnandosi in un bambino denaturato e senza più idoli al crepuscolo, che fruga con un cucchiaio nella rena alla ricerca di qualche ‘traccia’ da mettere sotto i denti. Viene in mente il cucchiaio di Matrix, che si piega quando Neo capisce che ‘il cucchiaio non esiste’, l’ente non si identifica con il suo essere. Quel bambino, però, oltre non essere l’eletto, si rapporta al cucchiaio come un bisturi, nella sua mera strumentalità, come oggetto utile a un certo scopo e non come ente che appartiene a un mondo e che in questo mondo assume un significato a partire dal suo essere, proprio perché il mondo ‘non-è-più’: sono rimasti gli uomini, stremati dalla tecnica, che cercano di capire la ribellione della natura nei loro corpi attraverso l’arte, ma non ci riescono, almeno non definitivamente, e si scoprono egoisti e molto più vuoti di quanto pensassero. Nemmeno Saul è l’eletto, nessuno è l’eletto. Saul Tenser è l’anima-tesa-nel-tempo, tormentata, affamata di piacere e di bellezza, ma anche molto confusa, egoista, capricciosa.

La distopia serve a ricordarci che noi viviamo già in un mondo distopico. Crimes of the Future è un film distopico che critica la superficialità con cui stiamo gestendo il disastro ambientale e lo sviluppo tecnologico, ma soprattutto la smaterializzazione del nostro corpo in tale sviluppo, che rischia di confondere la tecnica con l’arte, di ampliare progressivamente la distanza fra arte e natura. È un tema filosoficamente complesso, ma allo stesso tempo concreto e urgente. Di fatto, la Terra è diventata una discarica, la natura si ‘ribella’ surriscaldando il pianeta, moltiplicando varianti del virus, suggerendoci ‘tracce’ ambigue che, se seguite, invece di risolvere il problema potrebbero complicarlo, mentre molte guerre sono in corso, i politici si gingillano su Tik-Tok, gli intellettuali latitano, e il linguaggio si impoverisce sempre di più, riducendosi spesso a una stringa di emoticon sul display dello smartphone.

Con questo film Cronenberg mostra che sarebbe auspicabile tornare all’ABC della sensazione, alla grammatica essenziale del corpo, e capire che possiamo illuderci di tutto quello che vogliamo e che forse, come affermava Bukowski, non vogliamo la verità ma ‘bellissime bugie’, forse non vogliamo sempre la cosa giusta, eppure in una società ormai non più liquida ma liquefatta, di cose giuste avremmo bisogno. Il crimine dà una scarica di adrenalina ma non produce alcuna bellezza. Infatti, qui non si pone una questione morale: il problema del rapporto tra corpo e anima, tra corpo e ambiente, tra corpo e società, tra corpo e corpo, oggi è un problema estetico. Lo stesso concetto di bellezza, insieme ai nostri corpi, tende a smaterializzarsi, a svuotarsi di senso, nella rivelazione epidermica e immediatamente appagante della subcultura iconica dei social, che propina l’umanità in barrette trash facili da scartare, quando invece il nostro corpo avrebbe bisogno di ingerire un ‘pasto nudo’ autenticamente ribelle.

L’Inesistente
Credits: David La Chapelle, After the Deluge: Statue, 2007; David La Chapelle, Icarus, 2012; Elmgreen & Dragset, Useless Bodies?, 2022