Alla fine di te potrebbe non esserci niente, gli dici servendogli il caffè con la Monna Lisa tatuata sull’avambraccio sinistro e il bazooka sulle spalle, mentre il tratto della sua matita si ferma a metà del terzo arco a tutto sesto del prossimo bosco verticale, voglio dire, e gli giri la tazzina di centottanta gradi perché sai che a lui il caffè piace berlo come un mancino, perché secondo lui su quel bordo si posano meno labbra, basta toglierlo, gli dici, piegandoti sul bancone e toccandoti il seno, il male, basta toglierlo, metti tre settimane e sono di nuovo qui al bar, lui si porta la tazzina di caffè alle labbra, quante labbra pensi si siano posate sul bordo di questa tazzina, infinite, non le possiamo calcolare, perché la vita scorre in fretta e noi siamo solo labbra da sciacquare via, macchie di rossetto da sciacquare nella lavastoviglie della morte, perché ci sono altre labbra altri caffè altre persone che come te progettano qualcosa pensando che abbia un senso, perché la vita fa più paura della morte, se ci pensi, se ci pensi nella lavastoviglie non vedi quello che succede, ma se tiri fuori la tazzina allora ti brucia le dita e anche gli occhi, se è vicina, e magari vedi che è rimasto un segno, un maledetto segno di rossetto, e allora devi prendere uno straccio umido e strofinare via la macchia, insomma potevamo quasi azzardare anche solo l’ipotesi di essere qualcosa, un residuo di qualcosa su qualcosa, invece adesso non possiamo più farlo, perciò continua pure a disegnare i tuoi archi a tutto sesto, continua a fatturare, ad arricchire il tuo tempo, parole tue, come se le persone debbano arricchire il tuo tempo come l’ologramma di un Cartier da indossare per un reel, ma qui al bar sei solo un paio di labbra sul bordo di una tazzina da caffè e il tuo tempo non ha più valore del grumo di cellule che mi hai lasciato dentro stamattina, mentre pensavi che dormissi e che quello fosse il mio respiro e non la terra del giardino battuta dalla pioggia, quel mio piccolo giardino, promettimi di prenderti cura dei miei pomodori se l’intervento non dovesse andare, fanne quello che vuoi ma non farli marcire, ti dico che non sono incinta, non so come faccio a saperlo, forse lo so e basta, anche se quando mi sono buttata in doccia con lo spazzolino in bocca e ho guardato il mio corpo, avrei voluto non essere dentro quel corpo, ma in un’ipotesi che aveva attecchito e già viveva nel mio ventre, avrei voluto dimenticare il mio seno metastatizzato e il sifone della doccia pieno di calcare e tutte quelle cose da aggiustare che mi fanno sentire sola e in perenne angoscia, tutte quelle cose che mi fanno bere, perché un lato positivo dovrà pur esserci in queste piastrelle bordate di viola, perché qualcuno le ha costruite, messe insieme, attaccate alla parete, perché sono vere, sono vere anche senza di me che ci disegno uno smile sopra, sposto il vapore con un dito, quante cose si possono fare con un dito, perfino digitare il tuo numero dal telefono di un altro perché mi hai bloccata, e sentire te che con voce cadaverica mi chiedi dove sono, dove vuoi che sia, no non sono ubriaca, e ti aspetto, so che non ti prenderai mai cura del mio piccolo giardino, so che una macchia di rossetto resterà, indelebile, in quell’angolo buio dove mi hai trascinato per tirarmi uno schiaffo, perché stavi cucinando lo stufato per la festa con il grembiule professionale da alcolizzato, e io ti ho interrotto mentre dal Mac del cucinotto Elton John cantava it’s a little bit funny e il mio cuore si spolpava sotto i tuoi mocassini con la suola scollata troppo piccoli per i tuoi piedi enormi, così sei andato dal bangla, hai comprato una specie di caviale con l’etichetta scritta in geroglifico e gli hai pure lasciato i mocassini per farti rifare la suola in gomma, che poi è decisamente migliore di quella in cuoio perché con quella in cuoio si scivola, dicevi, si scivola sui ponti di vetro sopra i canali lubrificati dalla luna, ma quella non era pioggia, era il rumore del mio respiro che si faceva terra calpestabile per le tue notti insonni, e quindi ti sei messo a spalmare quella roba nera su dei crostini da irrorare con del prosecco sgasato, nell’ufficio bunker dove ti aiutavo a scrivere la tesi di dottorato, tra polaroid fighe di te giovane in barca a vela e libri di Cioran, ma non vedi che sei un fuscello, mi dicevi ciucciandoti il pollice unto e trapanandomi le pupille con sguardo azzurro porco, tanto non l’avremmo rifatto un’altra volta, lo facevi solo per farmi capire che avremmo potuto rifarlo e l’avremmo comunque rifatto, incastrando l’impegno in uno slot bianco drammaticamente apparso sull’agenda come un colpo di pistola, magari in un motel a metà strada circa mille weekend dopo, ed è andata proprio così, la mattina ci siamo svegliati e nevicava, la prima neve dell’anno, alla stazione mi hai dato un bacio sulla fronte, lì per lì mi era sembrata una cosa quasi romantica, la tua bava si rapprendeva sulla pelle come il pozzo di una fiaba antica, un pozzo profondissimo sul cui fondo brillava una stella, e in tutti questi anni, non ho mai smesso di cercarla, bisogna anche un po’ crederci però, per vederla, tu la vedi, hai fatto un cazzo di test, non ti avvicinare così, l’alito ti puzza di gin e catrame spalmabile, ascoltami bene, tu adesso vai subito in farmacia chiaro, sei già ko alle dieci di mattina e la bamba te la sei strisciata tutta la notte sulla mia schiena, haha, non ti vergogni neanche un po’ di quello che dici, scusa, dopo noi due facciamo due conti, ok forse ho esagerato, cazzo è lunedì mattina, e scrolla le email, lo so ti ho chiesto scusa, fammi un altro caffè e un tramezzino, ce li avete i tramezzini, stamattina abbiamo cavallette in tempura e salsa rosa, oppure, oppure cosa, ce l’hai tipo un toast, sapevi che sarebbe arrivato al toast, gli piace croccante e farcito ad alta densità con prosciutto e fontina dopo la sbornia, ti fa segno come per dire va bene il toast ma non pensare che io non vada al meeting per una sveltina rappacificante sul retro, scrittrice fallita matta come un cavallo proprio tu mi dovevi capitare, e rutta sottilmente, una sfiatata di pseudocaviale maldigerito, tu gli sorridi, avresti voglia di raccontare tutto in un romanzo, i primi capitoli già ti uccellano nel cranio, raccontare tutto a partire da quello che era successo la sera prima, lui pensava che dormissi e che quello fosse il tuo respiro e non la terra del giardino battuta dalla pioggia, quel tuo piccolo giardino, il seme era entrato, il seme germogliava sotto il piercing all’ombelico, non t’importava se fossi morta sotto i ferri mentre lui avrebbe fatto finta di aspettarti in sala d’attesa, perché morire con una parte vivente di lui dentro di te avrebbe in ogni caso avuto senso, molto più senso di tutto ciò che avresti potuto essere fino a quel momento, il pane è nel tostapane, si accende una lucina arancione, assomiglia alla stella in fondo al pozzo profondissimo di quella fiaba antica, gli sorridi di nuovo, ma lui ha abbassato gli occhi sul display, torni al bancone, prendi la sua tazzina sporca e la metti nella lavastoviglie insieme alle altre.
L’Inesistente
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