Prendi la scatoletta di tonno e te la premi sul cuore, sì, è il posto giusto, stendi il rotolo di scotch fra te e lo specchio, sotto l’uniforme da lavapiatti sembrerà un pettorale gonfiato con metodico esercizio e non la pausa pranzo esclusa dal contratto, perché i piatti non si lavano da soli, hanno bisogno che le tue mani si screpolino affondando negli aloni e negli avanzi schiumanti detersivo al limone di gente che non vedrai mai in faccia, gente che ha mangiato nel piatto dove tu metti le mani, e pulisci, strofini, disintegri superficie su superficie il più possibile perché a fine giornata il capo ti controlla le mani e se non sono malridotte ti dà del lavativo, il che se ci pensi ha anche una sua ironia intrinseca, ma perdere il lavoro non sarebbe affatto divertente ora che lei ti ha mollato e hai bisogno di soldi per sopravvivere, a casa non ci vuoi tornare e con la tua terza elementare, insomma, questo lavoro è stato una manna dal cielo, al colloquio il capo ti ha letto la fame negli occhi, il capo è un rossiccio ciccione sulla quarantina con baffetti arricciati con il gel e occhi color cielo che trattiene la pioggia, un vero stronzo sadico, uno che gode a umiliare gli altri, quelli che ritiene più deboli di lui, e poi magari è il primo che si fa mettere al guinzaglio con un collant in testa nell’intimità di un motel tamburellato dagli scarafaggi, e ti dice chiaro e tondo che non ci sarebbe stata la pausa pranzo e che avresti lavorato senza interruzione, insieme ad altri ragazzi, certo, ma niente confidenze, solo ordini a cui obbedire senza fiatare, perché loro si sono già fatti un culo tanto da almeno un giorno più di te, senza ridere e senza piangere, altrimenti non sarebbero ancora lì, stanne certo, si può andare in bagno ogni tre ore per cinque minuti, se hai la diarrea o roba del genere sei fuori, se ti pisci addosso sei fuori, se qualcuno ti becca a temporeggiare su una macchia sei fuori, okay, dici tu, vagheggiando la dimensione in cui avresti potuto o voluto temporeggiare su una macchia, allora lui ti sbatte addosso un’uniforme da lavapiatti sigillata in un rettangolo di nylon tipo cadavere liofilizzato, e a muso duro, nel suo micro ufficio sgabuzzino senza sedie, ti dice se mi fotti una volta io ti fotto per sempre, non lavorerai mai più in nessun ristorante di questa dannata isola, e ti fissa con quegli occhietti cielotrattenuto, chissà quando si spacca quanta pioggia cade, cade tutta insieme, una pioggia di tonni sfilettati si schianta sull’asfalto e affoga gli scarafaggi e gli spettri dei lavapiatti licenziati, ragazzi che come te hanno cercato fortuna su quest’isola pullulante di bear psicopatici che vivono per renderti la vita un inferno, sono ormai proverbiali i loro inviti per un drink sul sofà, al tramonto fa ancora un caldo atroce ma loro, scelta una cosa a caso su Netflix, infilano i piedi in spessi calzini di spugna Adidas tirati su fin sotto al ginocchio ciucciandosi le dita lerce di patatine in confezione XXL, e con una schizzata di codeina on the rocks nel bicchiere ti dicono siediti, di che hai paura, qualche ora dopo ti svegli con un dildo nell’intestino crasso, sarebbe increscioso chiamare l’ambulanza, per ripescarlo occorre che il bear psicopatico si metta un guanto giallo, uno di quelli che il capo non vi lascia usare per lavare i piatti, tutto impiastricciato di lube gomito compreso, fa male e cachi sangue per giorni, devi acquistare una confezione di assorbenti alla Despar ma non sai come usarli, gli tagliuzzi e fai solo peggio, d’altra parte tu la sera vuoi solo tornare a casa, se è lecito chiamare casa la camerata dell’ostello stipata di ragazzi estranei seminudi troppo esausti per docciarsi, respiri e ti sembra di respirare sudore, fingi che lo spiffero rovente che penetra dall’oblunga finestrella semiaperta in obliquo verso l’alto sia respirabile, quindi ti accosti a quella fonte di ossigeno, ti spruzzi il cortisone in gola, respiri, ricarichi il cel per vedere se lei si è pentita, ci sta che non abbia davvero preso quell’aereo e che sia sempre su quell’isola, che comunque è enorme e le città e i deserti in cui perdersi sono tanti, quindi le possibilità che lei ci sia ancora, da un punto di vista squisitamente geografico ci sono, per te ci sono, l’idea del cinema non ha funzionato, lei è riuscita a fare la comparsa in qualche spot, tu invece zero, solo provini su provini, pensavate che essere belli l’uno per l’altro potesse bastare a convincere gli altri dello stesso, qualche produttore straricco avrebbe finanziato una serie ispirata a voi, lei ti aveva convinto che avreste avuto successo, che dovevi lasciare il tuo paesino di montagna e i tuoi troppo numerosi fratelli con cui hai sempre dovuto spartire vestiti sogni giocattoli, partire, andare lontano, perché lontano era la soluzione, e il clarinetto avresti potuto suonarlo anche lontano, il diploma al conservatorio era l’unico vezzo borghese che ti fossi mai concesso insieme al tatuaggio di Tiger Man sul costato destro, avevi iniziato e volevi finire, avevi scelto il clarinetto perché tua madre era convinta che così avrebbe risparmiato sull’asma, non aveva tutti i torti, ma pensava che dopo un po’ avresti smesso, dato che le elementari manco le avevi finite, e invece alle spese per inalatori e cose varie si sono aggiunte quelle per le lezioni di musica, e i tuoi fratelli ti prendevano in giro o ti tenevano il broncio, si sentivano esclusi e minacciati da quella raffinatezza così poco familiare, non capivano che senso avesse quello strumento, mentre tu non te lo sei mai chiesto perché per te è sempre stata la tua casa, il tuo rifugio dalla montagna, dal mondo piccolo del tuo paesino natale e dal mondo grande in cui c’erano talmente tante cose da scegliere che preferivi evitarlo concentrandoti sullo spartito, su quel pianissimo che rivestiva tutto di un’inscalfibile manto di stelle che potevi illuminare e spostare con un soffio, ed era il cielo più bello che potessi desiderare, finché non hai incontrato lei, lei ti ha abbrustolito al primo sguardo come un pollo che, allontanatosi dall’aia, viene fulminato per capriccio divino, maledetto sia sempre Zeus che riempie e svuota i vasi come gli pare al di là del bene e del male, lei ti ha detto ma tu sei tipo quello che suona il clarinetto e l’avete fatto la sera stessa, le stelle erano dappertutto, lucciole impazzite sul suo corpo, infatti lei un po’ matta lo era, suo padre disegnava yacht giù a valle, che bisogno c’era di andare via, questa tua mania di fare l’attrice a tutti i costi ci porterà alla rovina, avresti voluto dirle, ma non volevi scoraggiarla, volevi solo che fosse felice con te, per orgoglio non la chiami e non le scrivi, dopo quella brutta litigata lei se n’è andata, ha detto proprio così, io me ne vado, e tu per la rabbia l’avresti ghigliottinata con un colpo di clarinetto, ma poi hai visto quella tristezza nei suoi occhi, quei suoi occhi da bambina viziata che sa di aver sbagliato e non sa come rimediare, una bambina incantevole però, e non te la sei sentita di evidenziare il suo errore, hai semplicemente detto io ti amo, ce la possiamo fare, non andare via, parole banali ma ti uscivano dal cuore, nelle tue mani screpolate hai preso le sue smaltate di fragola, come per nutrirla della tua speranza, ma lei ha preso il suo valigione straripante di roba e se n’è andata, così ogni mattina ti avvolgi sul torace e sulla pancia le scatolette di tonno con lo scotch, costano poco e le puoi mangiare mentre fai la pipì, prima o poi il capo scoprirà il tuo segreto, già sospetta qualcosa, è irritato perché non capisce quale sia il tuo trucco, si chiede come fai a non svenire con tutto quel lavoro senza mangiare niente, forse si aspetta che tu vada strisciando da lui a chiedergli un sandwich come fanno alcuni, ma gli viene detratta un’ora di paga e il capo li fa sentire dei tali frignoni che alla fine è come mangiare un panino alla cistifellea, invece con te si vede che ancora non ha capito con chi ha a che fare, sorridi scintillante di tonno in scatola allo specchio, Zeus avrà pure pisciato fuori dal vaso ma tu sei diventato un acrobata degli urinali in tempi record e non saranno certo gli insulti crepuscolari di baffetto rosso a farti a pezzi, speri solo che una sera non ti inviti a casa sua a trangugiare patatine, perché gira voce che questa sia la sua extrema ratio se non riesce a beccarti in flagrante con le mani nella marmellata, e se rifiuti, be’, non è cortese dire di no al tuo capo, specialmente se è un drogatello permaloso che ti tiene per le palle, ma la cucina nonostante i divieti è un tornado di chiacchiericci di ogni sorta a cui non dare troppa retta, in fondo anche il capo è un essere umano e come tutti gli esseri umani ha bisogno di sentire il potere di far accadere qualcosa, e prima o poi crollerà, perché il sentimento del potere è solo un’illusione, perché il suo cielo trattiene un’alluvione, perché nella sua solitudine non credi abbia pensato a una scialuppa di salvataggio, e magari sarà proprio lui a chiedere pietà tendendoti una mano incrostata di marmellata al di là dei flutti selvaggi delle sue lacrime, un giorno, semmai arriverà quel giorno, sorridi allo specchio, sembri lo knight in shining armour del paese delle merdaviglie, fai aderire alla milza l’ultimo tonno in scatola del tuo intimo carapace quotidiano, lui conosce bene l’isola in ogni suo centimetro quadrato, potrebbe diventare un prezioso alleato, presentarti a un direttore d’orchestra, aiutarti a rintracciare quella bimba maldestra di stelle, perché non dovrebbe, quel giorno per te lui farà qualsiasi cosa.
L’Inesistente
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