Pomodori

Strappami il cuore su un treno in corsa, piuttosto, ma io lì dentro non ci torno, dice lei indicando un capannino degli attrezzi semiaperto che fa angolo oltre il passaggio a livello che separa la ferrovia dal nulla, in quel piccolo orto abbandonato ove pare si dispensino nomi propri ai più veloci a digitare il prossimo numero di morti su Glovo pollice verso, che da food delivery ha esteso le proprie competenze in fatto di premi social, e in era post pandemica i nomi propri sono come un Tamagotchi sepolto vivo che fa bip, nell’era dei senza volti a caccia di un qualche superpotere che li renda speciali, il tempo è in fibrillazione costante, specie se di botto ogni secondo che passa si associa alla prospettiva di un business necessariamente fallimentare, ma pur sempre illusorio di una manciata di futuro da spargere su un triangolino di erbacce, e lui teme perfino che qualche intruso mascherato venga a ciacciare nel loro trofeo, si guarda attorno a scatti come se cercasse cecchini appostati nella neve, ma la neve non c’è, e le dice tranquilla, non se ne accorgerà nessuno bebi, i pomodori sono tutti nostri, chi vuoi che venga qui a ruzzare tra ghirlande di siringhe e tarponi marcianti su lattine di Red Bull sugar free mentre la città sullo sfondo si sgasa, il giorno del ringraziamento poi, figurati, tutti in casa a regolare il timer, e nemmeno si ricordano come si chiamava il giornalaio, onnipotenza gelificata in scatola, mai sottovalutare le tradizioni, e tu, tu te lo ricordi il tuo nome, chiede lei, sicuro che sia quello giusto, voglio dire, prova a dirlo quando sei da solo, completamente da solo, ad alta voce, prova a ripeterlo più volte, prova a urlarlo, ecco, sei ancora sicuro che quello sia il tuo nome, sei certo al mille per mille di possederlo in tutti i suoi silenzi, di quante vite il tuo nome deve precorrere l’infinito per assomigliare a quello di dio, ma insomma che ti prende, fa lui mettendo il broncio, vuoi forse che il tacchino prenda a spallate il forno dall’interno e, mezzo ustionato, caracolli fin qui a raccontarci la verità, a spiegarci, finalmente, il significato del mio e del tuo nome, non sto dicendo questo, lo sai bene, ma ho preso un giorno libero alla farmacia, io ho bisogno di lavorare, capisci, non me ne frega un accidenti delle tue strambate, speravo che almeno, cioè speravo fosse una scusa per stare soli e, glu glu glu, il tacchino stramazza al suolo dalla noia, bebi, non farcirmi le orecchie con le tue balle donnesche, okay, non venderai condom e Zigulì per qualche ora, ci sta, il tuo capo troverà un rimedio per aggiustarti sottobanco, e spegne un mozzicone fradicio sul fondo di una bottiglia di birra, e la osserva da lì, come da uno stupido binocolo alla rovescia, e a te andrà pure bene, lei non lo guarda, non saprebbe come guardarlo, se essere arrabbiata, eccitata, risentita ma non troppo, tipo va be’ se mi sbatti a fondo si può pensare di far pace, però il gusto dominante in fondo alla gola è futile e aspro, come uno spicchio di limone senza tequila e senza sale, così si scosta dalla bocca una ciocca di capelli mézzi, che stronzo, però, quando vuole è proprio uno stronzo, pensa con il braccio alzato, il braccio con il passeggino tatuato sul polso, il regalo di fidanzamento di lui, ha detto scegline uno bebi, per un figlio avrebbe dovuto bucare il preservativo con uno spillo, o prenderlo di sprovvista in cima alla Tour Eiffel, ma lui era super zelante, tutte le volte, li controllava minuziosamente con la torcia dell’iPhone, e se la beccava, meglio di no, aveva quindi optato per il tatuaggio più costoso, scusa non mi ero proprio accorta che, fa niente bebi, sorride, la bambina incappucciata tempera matite rosse all’ombra del capannino, passami un’altra birra, ti prego, mi sto squagliando, il torso nudo gli riluce nella foschia da mezzogiorno irrespirabile, almeno io un lavoro ce l’ho, un lavoro a tempo indeterminato, dice lei stappandogli la birra con un souvenir del loro viaggio a Parigi, tutto il tempo a leccarsi dalle dita la Nutella bollente e poi, per scherzo, lui si puliva sul suo nasino aristocratico, guarda che così ti sporchi, signori, perdonateci, questa donzella d’alto bordo è proprio una zozzona, prima non lo sapevamo, ma ora ve lo garantisco, così la lavava con un bacio stile vacca in riva al fiume e, tutto tremante, la trascinava a vedere qualche dipinto, le labbra frocie dei ritratti espressionisti erano le sue preferite, scippava il rossetto di lei dalla borsetta e se lo strusciava addosso tutto sghembo come il pene eretto di un cane, per dimostrarle quanto fosse facile essere strani, seduti di fronte a inquieti campi di grano, una pausa, lui contava la tacca sul braccio sinistro di lei, la più bassa, ormai erano dodici gli uccelli neri in posa sul loro destino in dissolvenza tra fantasie di spighe pronte a strozzarsi a vicenda, ce ne andiamo, non siamo nemmeno a metà museo, fa lui asciugandosi la bocca con il dorso, per favore andiamo via, lui la stringeva a sé, le sussurrava il suo nome nell’orecchio, lei ridacchiava e gli uccelli neri volavano via, almeno fino alle lenzuola della cameretta d’albergo soppalcata, dove li lasciavano fare, appollaiandosi sulla grondaia per beccare eventuali litigiosi residui post coito, e ora lui si guarda quella mano dove prima c’era il rossetto di lei, la mano tutta scorticata dal continuo su e giù della vanga usata per smuovere la terra, ma la terra è durissima, ti dà la sensazione di spostare la materia da un punto a un altro senza mai sparire veramente, adesso anche lei sembra rinunciare, si stappa una birra con il coso eptagonale del Moulin Rouge, la schiena poggiata alla borsa frigo e la coda dell’occhio fissa sul biforcuto fascio di tenebra che dal capannino quatto quatto si allunga verso i talloni di lui, jeans con il risvoltino fin sotto al ginocchio, una delle parti preferite di lei, azzannare quei polpacci dalla lieve peluria ramata, così ingenuamente sugosi, e poi scendere fino a toccare la terra con la fronte, indugiare con la lingua e con le labbra su quei calcagni che avrebbero potuto spaccarle tutti i denti con un calcio, a cosa stai pensando bebi, i pomodori non si piantano mica da soli, secondo i calcoli dell’app, accidenti ho lasciato il cel nel capannino, speriamo non si scarichi, spe’, si sfila una matita rossa da dietro l’orecchio e scarabocchia su un block notes preso con i Punti Fragola, dovrebbero volerci circa un bel po’ di mesi, ma chi ben comincia, occhiolino, lei prova a non sbuffare ma non ci riesce, avremo il nostro orto, un orto tutto nostro, ci pensi, potrò lasciare il part-time da magazziniere e potremmo vivere nel capannino e, lei solleva lo sguardo su di lui, esausta, che c’è, io lì dentro non ci torno nemmeno morta, non ti saranno venute le tue cose proprio ora, no no, non ci casco con ‘sta storia del ciclo, perché vuoi farti ingravidare, è così, pensi di fregarmi, pensi che io sia scemo o che abbia mezzo cervello bruciato dal crack, tu credi che questo sia tutto un cazzo di gioco, vero, la bambina incappucciata è risalita dalle caviglie, si arrampica sulla sua schiena, sta per baciargli la croce tatuata dietro al collo, quella che si erano fatti insieme, il giorno del fidanzamento, lui la croce e lei il passeggino, la croce era costata molto meno, e mangeremo quei pomodori per sempre e tu, cazzo bebi, tu sarai di nuovo felice, te lo prometto, lei si accorge che lui ha iniziato a frignare tipo Leonardo Di Caprio in The Beach, aveva visto il film su un volo della Qatar di ritorno da un convegno su un antidiarroico sperimentale, ma era gonfia di noccioline e Singapore Sling, mezza stonata dal jet lag, e non aveva fatto molto caso alla trama, ma magari quella era semplicemente una scena clou che lui si era studiato a casa davanti allo specchio, a volte lo sentiva parlare in bagno da solo, ma come se parlasse a qualcuno lì presente, ma tu credi che piantare pomodori nell’orto, nel nostro orto, riattacca lui, ormai immerso nella parte, invece, tu credi sia un’enorme, gigantesca cazzata, e le getta contro il foglietto del block notes come una palla di fuoco, una gigantesca palla di fuoco, è così, o forse mi sbaglio, i suoi occhioni si dilatano verso di lei come sfere di mare insabbiato, la bambina incappucciata sta infilzando delle matite rosse nella schiena di lui, le infilza a tre centimetri l’una dall’altra come se stesse costruendo delle ali, come se lui dovesse spiccare il volo lì, e da un momento all’altro sparire trascinandosi dietro tutto il grappolo materico che non era stato possibile cavar via da quell’orto, non te lo darò mai un figlio, sentenzia osservandola dall’alto verso il basso, sei tu che sei strana, fai finta di fare quella a posto, con il lavoro a posto, con la borsetta a posto, ma tu dove sei, ti sei mai cercata per davvero, pensi di tirare su un bimbo tagliuzzandogli le braccia come un calendario dell’Avvento, ti sei mai chiamata con il tuo vero nome, a me lo hai mai detto il tuo vero nome, ecco, non lo fare, promettimi che non lo farai mai, il foglietto strappato dal block notes le si è raggrinzito accanto, sta bruciando ma lei non lo apre, guarda di fronte a sé, finisci la birra, dodici uccelli neri in posa sbavano per il tredicesimo fratello, io ti aspetto dentro.

L’Inesistente
Credits: Alexej Jawlensky, Portrait of the Dancer Aleksandr Sakharov, Staedtische Galerie im Lenbachhaus und Kunstbau, 1909 – https://artsandculture.google.com/asset/ogGvLdZg_9FlIQ